CESARINA (trentaquattresimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Cesarina è un personaggio la cui apparizione fiabesca risale al periodo della bohème di Fellini. A diciannove anni Federico sbarcava il lunario come poteva, offrendosi di disegnare caricature ai clienti dei ristoranti, o anche dipingendo motivi di richiamo sulle vetrine dei negozi di via Veneto. Ma erano lavori saltuari e non garantivano in nessun modo il pasto quotidiano.

Un giorno, affamato, entra nella trattoria della Cesarina in via Lombardia senza una lira in tasca, mangia tutto quello che riesce a contenere il suo stomaco e, al momento del conto, confessa di non avere i soldi per saldare. Come in una comica finale di Charlot, viene cacciato fuori dal locale e inseguito da improperi ustionanti. La proprietaria, una sanguigna bolognese con la lingua sciolta e i pugni sui fianchi, incute proprio paura, aggressiva come una virago. Nei giorni successivi il giovanotto cerca di girare alla larga da quel locale, anzi dalla stessa strada, temendo le furie della donnona. Ma una mattina la Cesarina, in piedi sulla soglia, lo scorge infreddolito e da lontano gli fa cenno con la mano di avvicinarsi. Quando il ragazzo, esitante, si accosta, pronto a scappare, “Dai, entra” gli dice lei perentoria, e gli apre addirittura la porta per farlo passare. Gli indica un tavolo libero, lo invita a sedersi e gli serve il pranzo completo, dal primo alla frutta, senza portargli il conto. L’ostessa forse s’è pentita della sua scenata così cattiva verso un ragazzo affamato; non si sa per quale ragione ‘recondita’ ha preso a benvolere quel giovincello alto e magro come un chiodo e ha deciso di provvedere lei a togliergli la fame. Per un mese intero, anzi per una intera stagione, lo foraggia senza chiedergli soldi. 

Stacco cinematografico, Sono trascorsi alcuni anni. Fellini ha raggiunto una celebrità inimmaginabile con la conquista di ben due Premi Oscar con capolavori come La Strada e Le notti di Cabiria. E’ diventato un regista quasi leggendario, i produttori gli corrono dietro, e da mesi sta lavorando a un film segreto ambientato in via Veneto, tutta Roma ne parla; i giornali sfornano un servizio dietro l’altro, fughe di notizie, intere pagine di indiscrezioni, fotografie rapite durante le riprese, notizie sull’alternarsi dei divi stranieri, tra i quali una biondissima svedese dalle forme prorompenti, Anita Ekberg, una dea in terra subito ribattezzata dai reporter “ghiaccio bollente”. La rassegna stampa della lavorazione è talmente cospicua che al tempo della Fondazione riminese, Giuseppe Ricci curò da un poderoso volume composto dai ritagli di centinaia di articoli recuperati nei vecchi archivi della Cineriz.

L’attesa per il nuovo capolavoro del regista riminese è al calor bianco; i più informati ripetono di bocca in bocca il titolo assai adescante, La dolce vita. Al momento del lancio, il produttore Angelo Rizzoli chiede a Fellini dove preferirebbe organizzare la conferenza stampa per il lancio del film, se sulla Terrazza Martini o all’Excelsior; oppure in qualche altro luogo prestigioso della Capitale idoneo a incorniciare un’impresa così straordinaria. 

“Dalla Cesarina”, risponde Federico lasciando di stucco il ‘cumenda’ e i suoi addetti alle pubbliche relazioni. Nessuno sa a cosa si stia riferendo. 

“Al Ristorante della Cesarina”, ribadisce il regista. E gli uffici stampa prendono diligentemente nota fiondandosi a verificare se il locale sia capace di sostenere l’organizzazione dell’evento. 

Federico, come in un racconto sentimentale di Mark Twain o in un film di Frank Capra, vuole ricambiare la bontà di cuore della generosa bolognese che ha creduto in lui quando era ancora un ragazzo sconosciuto, e l’ha nutrito giorno dopo giorno nel proprio locale, come avrebbe fatto una madre.  

L’annuncio del film, alla presenza della stampa nazionale e di una affollata rappresentanza corrispondenti e inviati delle maggiori testate estere, avviene in quel locale ignoto ai più. E al termine dei riti canonici, le interviste, le domande a raffica, le fotografie, i commenti, gli scambi di battute, il bel mondo della Città Eterna potrà sperimentare le squisitezze di cui è capace la simpatica signora che si aggira orgogliosa tra i tavoli. 

La trattoria diventa in un lampo celebre in tutto il mondo, in breve si trasforma in un vero ristorante elegante trasferendosi nei nuovo locali di via Piemonte; dall’America si moltiplicano in clienti che giungono con l’indirizzo in mano: la visita alla Cesarina è diventata un must per chi approda nella Capitale.

L’ostessa diventa ricchissima, senza mai smettere, neppure un giorno. di badare di persona al suo locale e soprattutto di presenziare in cucina alla preparazione dei cibi. 

All’epoca della mia frequenza in compagnia di Fellini, già anziana, si pavoneggiava con ricche collane e bracciali d’oro come una Madonna in processione e teneva permanentemente a disposizione di Federico un tavolo rotondo da otto persone, disposto ad angolo, leggermente defilato perché il regista non venisse continuamente assalito dagli altri avventori in cerca di autografi e di contatti elettrizzanti. Con chiunque il regista arrivasse, ministri, celeberrime personalità del gotha internazionale, artisti di grido, Cesarina non si scomponeva, anzi non li guardava neppure; la sua attenzione era rivolta esclusivamente a Federico, scostava la sedia, gli si collocava in piedi di lato con una mano sul fianco e iniziava a proporgli i piatti del giorno: “Ho preparato le lasagne, le vuoi assaggiare, sentirai come sono buone…” “Ma Cesarina ci sono degli ospiti, delle signore!” Cercava di salvare la facciata Federico, fingendosi scandalizzato. “A loro pensiamo dopo, dimmi intanto cosa vuoi; ti va di assaggiare i fagiolini freschi? Sono tenerissimi, con ‘l’olio e un po’ di limone, mentre pensi a quello ti andrebbe di mangiare. Ti porto intanto una noce di parmigiano, guarda abbiamo appena aperto la forma, gli esce la lacrima.” E lisciava la tovaglia con le mani, allontanando i camerieri che avrebbero voluto accostarsi solleciti; alzava appena un dito per  richiedere il vino, quel Sangiovese superiore che teneva da parte per Federico e quando arrivava il sommelier gli strappava la bottiglia di mano per riempire lei stessa il bicchiere; quello era il ‘suo’ tavolo, guai a toccarglielo. Trattava Federico come una proprietà personale, un miracolo vivente, ignorando intenzionalmente i commensali dai quali solo in un secondo tempo si degnava di prendere le ordinazioni. 

Quante volte s’è ripetuta questa medesima scena davanti ai miei occhi, con scrittori, industriali, attori, relegati disinvoltamente nell’ombra, mentre il tavolo veniva sommerso di portate fantasiose! Qualcuno dei presenti, spiritoso, la prendeva a ridere divertito, qualche altro rimaneva perplesso, o inizialmente accigliato, ma Federico con pochi cenni d’intesa e le giuste parole sapeva ricondurre a uno spasso quel teatrino stavagante, e ogni volta il pranzo, invariabilmente sontuoso, risultava un trionfo di sapori e di generale allegria. 

 

Attorno agli ottant’anni, Cesarina decise di ritirarsi, cedendo il ristorante – locali, nome e avviamento – a un gruppo finanziario arabo. L’offerta non era proprio ignorabile. Ma resistette poco senza la sua attività, non riusciva a conciliarsi con l’idea che Fellini rimanesse privo delle sue cure e della sua cucina. 

In capo a neppure un anno, aprì una nuova trattoria portando con sé Giuseppe Zupiroli, il cuoco che le era cresciuto a fianco nel ristorante. Scelse un piccolo locale a Via Brunetti, proprio a due passi da Via Margutta, in modo che Federico dovesse attraversare in tutto via del Corso per raggiungerla da casa sua. Il nome era quello del numero civico, Al 54. Il capo cameriere si chiamava Aminta, come il protagonista della favola pastorale di Torquato Tasso. 

Non trascorse purtroppo molto tempo che la Cesarina passò a miglior vita, ma con animo rasserenato: era certa che per Federico, il suo intoccabile regista, amato con cuore e gelosia di madre, ci sarebbe stato sempre un tavolo ad accoglierlo.

Per Fellini il ristorante di via Brunetti era diventato una dependance di casa. Ci portava gli amici, i collaboratori più stretti, le celebrità che passavano a trovarlo. Una sera si era presentato il regista americano Spike Lee, con gli occhi increduli, stellanti per l’incontro: in mano recava un manifesto di 8 ½ scovato in un mercatino di Parigi e chiedeva un autografo del Maestro. Rimase a cena con noi naturalmente, e sembrò davvero che il mondo non avesse confini. Il nostro mondo, quello dell’arte, che parla una sola lingua in tutto il pianeta.

In quell’angolo di alta cucina emiliana, consumava volentieri i suoi pasti anche Vittorio Gassman, che abitava poco più avanti nella breve stradina, verso via di Ripetta. Per quanto anziano e in lotta con la depressione, già attraversando la soglia irradiava intorno una luce prodigiosa, di eleganza principesca, come accadeva per ogni sua entrata in scena. L’ultimo Gassman, un allampanato Don Chisciotte con la magrezza dell’hidalgo e negli occhi il dolore del mondo. Il volto scavato, quel suo tic di battere le palpebre, il sorriso ormai sempre più raro e sfumato; la figura ieratica che abbiamo ammirato fino all’ultimo, nella estrema performance di Sabbioneta, quando declamava il Poema di Dante nell’abbraccio del colonnato. E sembrava un profeta.

Anche Danilo Donati, emiliano di Suzzara, dopo la scomparsa di Federico continuava a recarsi di frequente in via Brunetti, avallando con la propria presenza l’eccellenza della messa in tavola. Trovava esemplari le tagliatelle di Giuseppe, originario di Reggio Emilia. Quel localetto appartato, di gran garbo, era diventato per gli happy few un piccolo santuario dell’eccellenza gastronomica. I tortellini, serviti in brodo, sprigionavano un concerto di ineffabili sapori. I ravioli di zucca, sublimi, superavano ogni possibile aspettativa. Ma le lasagne – le lasagne! – erano davvero un’esperienza mistica; richiedevano una pausa di concentrazione per delibarne la raffinata alchimia, e si provava l’illusione di sedere alla mensa degli dei. 

Era stato il mitico Giuseppe a insegnare a Fellini come si riconosce un ristorante di alta classe: ordinando due uova al tegamino. Da quel piatto apparentemente così semplice è possibile trarre ogni conclusione: la genuinità delle materia prime, la puntigliosa pulizia delle padelle e dei tegami, e la mano del cuoco, che non ammette trucchi.


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