SPECIAL CASANOVA (venticinquesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Il Casanova Fellini, caso piuttosto inconsueto, fu preceduto da uno ‘speciale’, cioè una sorta di backstage sul film da fare. Dopo il trionfo mondiale di Amarcord accolto con il Premio Oscar (il quarto, dopo La Strada, Le Notti di Cabiria e 8 ½), era stato Dino De Laurentiis a caldeggiare un film sull’amatore veneziano, pensando che l’accoppiata fra il più celebre libertino della storia e il massimo cineasta italiano costituisse una ghiotta esca per le Major Companies americane. E ci sarebbe stata a disposizione anche una consistente somma di denaro se Federico avesse accettato di utilizzare un divo dello star system hollywoodiano, scegliendo da un ampio ventaglio di nomi che svariavano da Marlon Brando a Paul Newman, da Robert De Niro a Jack Nicholson, da Al Pacino a Robert Redford. Prospettiva allettante sotto il profilo commerciale ma quanto mai indigesta all’autore riminese, che reagì con la sua abituale azione di resistenza opponendo attori italiani quasi in aperta sfida: Gian Maria Volontè piuttosto che Ugo Tognazzi o l’immancabile Mastroianni. Il regista dentro di sé maturava quasi inconsapevolmente un’acida avversione, un vero astio nei confronti del borioso Cavaliere di Seingalt. Si rifiutava persino di leggere integralmente le Memorie che trovava “noiose come un elenco telefonico”, irritanti, ripetitive, saccenti, “trombonesche”, degne della più tipica e disprezzabile incarnazione dell’italiano, servile e altezzoso a un tempo. Aveva rinominato il loro autore lo “Stronzone” (appellativo poi utilizzato durante l’intera lavorazione del film), e lo raffigurava come un individuo cancellato, vuoto, senza faccia, espressivo come “un paracarro, un piede, un palo telegrafico”. “Un’ingombrante marionetta” da far interpretare a un attore altrettanto pieno di sé, stolido e legnoso.

Così mentre il film da realizzare iniziava il consueto palleggiamento tra avvocati e potenziali produttori, rimbalzando da De Laurentiis a Andrea Rizzoli, e infine ad Alberto Grimaldi, Fellini alla ricerca di una chiave figurativa con cui affrontare l’ Histoire de ma vie decise di riempire la momentanea disoccupazione avviando nell’inverno fra il 1974 e il 1975 una specie di inchiesta sul campo. E fedele alla sua radicata convinzione secondo la quale “qualsiasi regista dovrebbe passare prima dal giornalismo” diede incarico a me e Liliana Betti, suoi assistenti, di svolgere un’indagine su come l’archetipo di Casanova fosse sopravvissuto attraverso quasi tre secoli nella cultura e nei cromosomi degli italiani. Il compito era di ricercarne le tracce endemiche da un lato attraverso i più celebri latin lovers dell’aggiornato ‘gallismo’ nazionale, e dall’altro appoggiandosi alla valutazione di studiosi ed esperti del settore.

Fu così che cominciammo a intervistare, prima al magnetofono e poi filmandoli, gli infaticabili professionisti della seduzione, sia i ben noti playboy internazionali come Gianfranco Piacentini, sia i più ruspanti dragueurs da spiaggia, vitelloni e bagnini della riviera romagnola.

Fra gli intellettuali erano stati invece reclutati primo fra tutti lo scrittore Piero Chiara, devoto ammiratore e biografo di Casanova, e a seguire Alberto Moravia, Roberto Gervaso, Franco Valobra, Bernardino Zapponi; fra gli esperti il sessuologo (allora presidente dell’Aied) Luigi De Marchi, e lo psicanalista Ignazio Majore.

Avevamo anche avanzato l’ipotesi di scandagliare l’analogo atteggiamento femminile intervistando insieme ai playboy le cosiddette playgirl. “E chi sono?” Domandò Fellini. Ce n’erano in giro, anche dal nome altisonante, le conoscevamo tutti. Sintetizzammo: “Beh, le collezioniste di maschi.” “Le mignotte”, tagliò corto lui andando al sodo. E lasciò cadere l’argomento poco pertinente.

Man mano che la lavorazione procedeva Fellini non mancò di appassionarsi a quella estemporanea avventura cinematografica e se inizialmente aveva deciso di ritagliarsi un ruolo unicamente di appoggio esterno, assistente dei suoi assistenti (sic!), presto non resistette alla tentazione di metterci personalmente le mani: perché non approfittare della produzione in corso (gestita dalla Cinemoon di Lamberto Pippia), per allargare l’inchiesta anche agli attori che in teoria avrebbero potuto aspirare al ruolo del seduttore veneziano? Detto fatto, dalle case e dagli studi privati degli intervistati, le riprese si spostarono a Cinecittà, con approssimative ricostruzioni in teatro di posa affidate a Danilo Donati, o anche in ambienti dal vero adattati con le opportune modifiche. Per l’episodio relativo a Mastroianni, ad esempio, funzionò a pennello il ristorante La Vecchia Pineta di Ostia, trasformato in una clinica psichiatrica in omaggio all’attore che stava interpretando in quelle settimane “Per le antiche scale”, dal romanzo di Mario Tobino e con la regia di Mauro Bolognini. Concepimmo per il film anche un titolo a suspence con tanto di punto interrogativo: E IL CASANOVA DI FELLINI?

Per il ruolo di Giacomo Casanova furono chiamati a raccolta i quattro ‘colonnelli’ del cinema italiano – Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi, Alberto Sordi – più un veterano del pantheon felliniano, il francese Alain Cuny (già Steiner ne La dolce vita e Lica nel Satyricon), ognuno di essi impegnato a vestire i panni del celebre amatore, delineandone l’aspetto che meglio si addiceva alle caratteristiche della propria personalità artistica. Olimpia Carlisi, musa del momento, fungeva da conduttrice e intervistatrice, provocatoria e abilmente svagata; l’unica presenza nel cast che sarebbe entrata a far parte dell’opera maggiore nella parte di una delle due sorelle entomologhe della cupa e inquietante sequenza svizzera. Ma ci sarebbe stato ancora da aspettare.

Vittorio Gassman fu ripreso sulla scena e nel retropalco del Teatro Quirino dove in quel momento aveva allestito il “Keen”, avendo accanto Diletta D’Andrea con la quale si era appena sposato in terze nozze. Il suo era di diritto un Casanova ‘mattatore’, vincente e vitalistico, appena offuscato da un’ombra di malinconia: straripante, perpetuamente ‘alla ribalta’ per qualsiasi occasione dell’esistenza, famelico di vita e di approvazioni, egocentrico, privo di dubbi e di scrupoli, sebbene, dopo tante conquiste, pateticamente e comicamente vacillante nella memoria.

Alberto Sordi, in costume settecentesco, animava spiritosamente il ‘carattere’ dello scapolo impenitente a tutti ben noto, sempre in fuga da ogni responsabilità e da ogni legame, soprattutto matrimoniale: “E che me sposo a fa’? Che me metto un’estranea in casa?”. Un vitellone vanesio, opportunista, dileggiatore, classico italiano mammone che non riesce a superare lo stadio dell’adolescenza mimetizzandosi in un gioco sempre più irrancidito di coureur de femmes, infingardo goloso e pigro. “Guarda, Federì, maschio, raffinato, non so’ io Casanova? Preciso a lui, uguale!”

A Ugo Tognazzi spettò la parte inevitabile del dongiovanni gaudente, edonista, bon vivant, esemplare di una maschilità gastrosessuale, che gusta le donne come un ingordo banchetto, allergico a ogni problematica intellettuale. Per lui venne infatti ricreata da Danilo Donati a Cinecittà, un’immensa tavola imbandita di cibi rigorosamente ispirati ai ricettari settecenteschi, che inducevano l’attore a declamare: “… quel sapore, quel profumo di putrefazione, tanto caro ai buongustai.”

Alain Cuny, attore della Comedie Française, sacerdote di Racine e dei classici, al punto che nel recitare – ironizzava il suo collega François Perier – “fra una parola e l’altra faceva in tempo a crescere l’erba”, era chiamato a interpretare Casanova da vecchio, amareggiato, rancoroso, pomposamente tragico; un clown irrimediabilmente triste capace ormai di corteggiare un’unica figura femminile, quella della Morte: “Ho vissuto da filosofo e muoio da cristiano.”

La sequenza più lunga era stata scritta per Marcello Mastroianni, nei panni di un medico psichiatra che si aggira nella sua clinica, tutta al femminile; una delicata allusione di Federico a un suo progetto mai nato, un film sulla pazzia tratto dal romanzo autobiografico di Mario Tobino “Le libere donne di Magliano”.  Mastroianni accettava anche lui di mascherarsi da Casanova, di truccarsi davanti allo specchio, ma per interrogarsi sulla propria immagine riflessa, quella di un maschio sentimentale eternamente affascinato dalla donna, sempre inseguita e mai raggiunta: “un pianeta sconosciuto, una galassia inesplorabile”. Sulla spiaggia di Ostia si prestava anche all’incontro con una violoncellista, giovane dama affascinante, stereototipo di quella imprendibile Henriette che l’avventuriero veneziano elesse e idealizzò quale suo unico e grande amore. “Le donne sono convinte che Casanova sia un mostro, un infedele, un traditore; – contestava Marcello – io non credo che fosse così, anzi Casanova era fedele, fedelissimo alla donna, all’ideale della femminilità…”

Dunque tante facce di un solo personaggio, in cui Fellini in realtà non cercava di ricostruire la personalità del protagonista dei Memoires, quanto più verosimilmente di rintracciare un inedito ritratto di sé stesso; come sempre aveva tentato in ogni suo film.

L’approssimarsi dei sessant’anni l’aveva disorientato e reso ancora più insofferente di sempre: “Fino a oggi – ripeteva – ho vissuto un’unica lunga stagione, indefinita e immutabile – vent’anni? trenta? – non mi ero mai preoccupato degli anni che passavano, indugiando in una età indistinta, sempre uguale. Adesso che si avvicinano i sessanta, avverto improvvisamente che la festa sta finendo, che si apre un nuovo capitolo, una diversa condizione a cui non mi sento preparato.”

Federico ritornava spesso sul tema, che avvertiva ostico e troppo impegnativo; un impegno che gli avrebbe ipotecato un’altra rilevante porzione di esistenza; una lavorazione lunga, faticosa in cui già si accingeva a trasportare il materiale di un immalinconito bilancio personale. Nasceva una delle sue più struggenti e toccanti confessioni, un viaggio intorno alla donna che era stata, e continuava prepotentemente a rappresentare, il centro focale più importante della propria vitalità e creatività.

Lo special su Casanova si era mutato a vista in un camerino di prova a cinque specchi, da cui affioravano anche aspetti meno risaputi e che non sarebbero mai più riapparsi pubblicamente con tanta lieve volubilità. In essi veniva riflesso anche il suo delicato rapporto con gli attori, spiato attraverso un’immagine in filigrana.

Lo special procedeva ‘per esclusione’, ogni nuova proposta negava la precedente e anche sé stessa, senza scrupoli né redenzione. Nessun piede era giusto per quella scarpetta di vetro. Eppure, nella loro estemporaneità per nulla pretenziosa, erano emerse sublimi prove di attore.

La finta inchiesta filmata, si era trasformata sotto i nostri occhi in un saggio di “composizione” cinematografica. Grazie anche all’altissimo livello tecnico della troupe: Peppino Rotunno alla fotografia, Danilo Donati art director di scene costumi; Nino Rota autore di un palpitante tema musicale, originale, eseguito di persona alla spinetta. Un pezzo da collezione.

Il film acquistato da Paolo Valmarana, responsabile del settore cinema della RAI (la copia è conservata dalle Teche) fu trasmesso il 6 maggio del 1975, in anticipo di due mesi e mezzo sull’inizio delle riprese del vero Casanova, datato al 21 luglio 1975.

Riunendo insieme il dossier dell’inchiesta e la sceneggiatura dello special, componemmo anche un libro che Erich Linder, il leggendario agente letterario, opzionò e affidò per la stampa alla Casa Editrice Bompiani, con un titolo a sé: Casanova rendez-vous con Federico Fellini. Nel quale aleggiava un palese riferimento al magico incontro avvenuto effettivamente nelle segrete stanze di Gustavo Adolfo Rol.

Il volume uscì in brochure nel mese di ottobre del 1975 e recava in quarta di copertina una nota eloquente:

Da questo libro parte il dialogo problematico e favoloso di Casanova e Fellini.

Casanova uomo, Casanova personaggio delle sue Memorie, Casanova cliché culturale da due secoli, antenato e mentore di tanti amatori nostrani, tra cui i quattro playboy intervistati nel libro non sono che i figli più piccoli. E poi l’immagine di Casanova ritratta nelle diverse versioni di scrittori, sessuologhi e psicanalisti, che via via ne esaltano e ne denunciano qualità e difetti. E finalmente Casanova adocchiato dai produttori in cerca di richiami erotici e successi commerciali, e rovesciato da Fellini in film “sul vuoto”, sull’inesistenza del personaggio…

Per finire, un’ultima scomposizione, in “medaglioni” televisivi questa volta, in cui famosissimi attori italiani, da Mastroianni a Tognazzi a Gassman a Sordi, rappresentano contemporaneamente se stessi e il “loro” Casanova, di cui ognuno di essi coglie un aspetto rivelatore.

Ma a quel punto Fellini già da tre mesi aveva iniziato la laboriosissima impresa della trasposizione visionaria, e in gran parte inventata, dei Mémoires, affidando all’outsider Donald Sutherland il ruolo del protagonista.


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