RISTORANTI (quarantasettesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

0 0

Nei periodi di preparazione dei film, in quel beato interregno in cui i ritmi sono meno frenetici, era frequente che per l’ora di pranzo si improvvisasse una volata in macchina verso qualche ristorante nei dintorni. Soprattutto al Fico Nuovo, da Claudio Ciocca, sulla strada di Grottaferrata, un luogo di delizia dei Castelli Romani con un clima di mezza collina, sempre fresco, anche in pieno agosto. 

Per Federico era stato predisposto un gazebo di tela bianca nel vasto giardino ombreggiato da alberi d’alto fusto e adorno di splendide ortensie, rosa e celesti, fiorite in capienti otri di terracotta. In quell’oasi di frescura il regista amava portare i suoi ospiti che si rinnovavano quotidianamente; ma anche amici e collaboratori abituali. 

Il tempo a disposizione non era molto e appena arrivati Claudio, il proprietario, all’occorrenza anche ‘generico primario’ nei film, riempiva letteralmente l’ampio tavolo ovale di tutti i possibili antipasti a  disposizione, fiamminghe di melanzane, peperoni, zucchine, insalate ed erbe cotte; alle quali si aggiungevano gli affettati, il prosciutto tagliato a filo di coltello, frittate a volontà di ogni capriccio, e una generosa scelta di ricotte ancora tiepide e di caciotte fresche o stagionate. Le candide e turgide mozzarelle di bufala erano immerse in capaci terrine ricolme di siero, e le ovoline di giornata, servite in boule di ceramica, venivano pescate ancora stillanti e generose di umori. 

Il Ristorante Dal Toscano al Girarrosto, in via Germanico, era il preferito in materia di carne, bistecche, straccetti in padella, prosciutto ben stagionato tagliato a mano, fagioli al fiasco; la giovane e piacente proprietaria, consacrata da Federico in un disegno la “Beata Paola delle Polpette”, dava all’impasto di carne tritata una forma schiacciata e ovoidale a gusto del regista, utilizzando un trito di carne bollita insaporita di pinoli e uva passa. Una leccornia che nel menu porta ancora il nome di Fellini. Per i cascioni alla verdura, invece, Federico le aveva scritto di suo pugno la ricetta, come ricordava che venivano preparati da sua nonna Franzscheina, di Gambettola. Il foglio di carta è ancora conservato nel locale come una reliquia. 

Una pietanza richiesta dal regista era anche l’omelette roulée aux fines herbes, cioè la frittatina ‘bavosa’ di tre uova fresche avvolte su se stesse. Tra i formaggi del Toscano apprezzava particolarmente una caciotta senese, stagionata ad arte, che Americo andava a recuperare da chissà quale forziere privato e metteva in tavola tutta intera a disposizione dei commensali, provvedendo soltanto al taglio di apertura della forma.

Una sera Enzo De Castro, il segretario personale del regista, era passato in trattoria a saldare i conti in sospeso del Maestro. Americo, il titolare, si era rifiutato di parlarne, non ne voleva sapere, temette anzi di aver sbagliato in qualcosa, di aver commesso senza accorgersi uno sgarbo nei confronti dell’amico regista, se ora gli veniva avanzata quella richiesta senza ragione. Ma poi Federico si era recato di persona a spiegargli, in confidenza, che stava partendo per affrontare un difficile intervento chirurgico in Svizzera e preferiva non lasciare pendenze. A maggior ragione Americo fu irremovibile: per quanto lo riguardava ne avrebbe atteso il ritorno, felice di vederlo entrare di nuovo nel suo locale in perfetta salute. 

Tra i frutti di mare Fellini aveva un debole per le telline che gustavamo, appena dischiuse nella loro acqua, nella trattoria Al Pescatore di Ostia; ma a Rimini era Elio Tosi, il celebre gourmet dell’Embassy, a preparargliele. E quando Federico venne ricoverato all’Ospedale Infermi, Elio, affettuosissimo, ne portava di persona una fiamminga piena, ancora vaporosa di cottura, suscitando non poche perplessità tra i medici curanti. 

Per il pesce si andava a Fregene da Mastino (che compare come chiosco di bibite e spuntini già nel film Lo Sceicco Bianco), oppure a Fiumicino da Bastianelli, ma più spesso alla Vecchia Pineta sul lungomare di Castel Fusano. 

Negli ultimi anni, per suggerimento del direttore della fotografia Tonino Delli Colli, frequentavamo “Benito e Gilberto”, una trattoria di pochissimi tavoli a Borgo Pio (Via del Falco, dietro Porta Angelica) che aveva (e continua ad avere) un pescato di rara freschezza. Federico era frugale, sapeva soddisfarsi anche con un semplice merluzzo bollito, insaporito da un filo d’olio d’oliva e succo di limone.  

Non è difficile ricostruire una mappa del capriccioso vagabondare del regista tra i ristoranti della Capitale. Una consuetudine di lunga data che Fellini aveva assimilato già nei primi anni di permanenza e aveva raccontato amabilmente nel film ROMA, nella sequenza di Via Albalonga. Le trattorie romane hanno sempre rappresentato una vera istituzione per il nomadismo dei cinematografari, e soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, costituivano una risorsa insostituibile per intellettuali e artisti squattrinati che lasciavano in pegno tracce estemporanee del proprio talento. Un’abitudine mai del tutto svanita, che Fellini aveva contribuito a consolidare inchiostrando dei suoi disegni tovaglie e tovaglioli dei locali in cui sostava. 

La sua prima azione, sedendosi, era di aprire la salvietta, tirare fuori la penna e cominciare a schizzare il volto di chi si trovava davanti a lui, o appuntare una fantasia che gli attraversava la mente. A volte utilizzava direttamente la tovaglia, come fosse una tela, eseguendo non più una singola caricatura ma una composizione di figure a commento dei fatti del giorno, o di un evento particolare, o di una scena del film che stava dirigendo. I proprietari delle varie trattorie, infatti, si guardavano bene dallo scoraggiarlo e, appena il cineasta toglieva le tende, sparecchiavano in fretta mettendo in salvo i suoi improvvisati ‘capolavori’. 

Americo del Toscano conserva una tovaglia debitamente incorniciata, assai particolare, dal piccante contenuto politico, e la tiene appesa alla parete in un’ala riservata alla famiglia, non aperta al pubblico.

Nella trasvolata tra i locali frequentati da Fellini, a seconda dell’umore, dei periodi, delle occasioni che propiziavano la scelta, è opportuno ricordare Perilli, a via Marmorata, dove si andava per assaporare le bavette al tonno, un magnifico ‘piatto povero’ della cucina tradizionale romana. Perilli le serviva in porzioni ciclopiche, dentro terrine bianche capienti come insalatiere. Federico ne andava ghiotto, ma gli bastava assaggiarne poche forchettate; poi le passava al suo fedele ‘personal trainer’, Ettore Bevilacqua ereditato da Marcello Mastroianni (sarà necessaria una’voce’ su di lui). In arte si faceva chiamare Hector Boileau, era un ex pugile possente come un macigno, e aveva recitato da generico anche in alcuni western all’italiana. Dopo aver divorato a tempo record le sue linguine, si dedicava coscienziosamente alla generosa seconda porzione del Maestro, o meglio del “Faro” come lui lo chiamava accendendosi di ammirazione, come se ne riflettesse in viso l’improvviso bagliore. Un appellativo divenuto in fretta consuetudine tra le maestranze di Cinecittà: “E’ arrivato er Faro!”, esclamavano al primo avvistamento dell’auto della produzione che attraversava i cancelli.

Perilli è il ristorante in cui De Sica ambienta l’indimenticabile scena di Ladri di biciclette, quando il protagonista Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani) con gli ultimi soldi che gli rimangono in tasca riesce a ordinare una mozzarella in carrozza, filante, per il figlio, il piccolo affamatissimo Bruno (Enzo Staiola). 

Anche Federico aveva girato nel locale alcune scene di ‘ambientazione’ durante le riprese di ROMA. Da allora quando il regista entrava con la troupe al seguito, Perilli si metteva di persona ai fornelli: il locale si trasformava a vista, assumeva un alone fiabesco, come se si fosse degnato di comparire il monarca stesso con manto, corona e corteo di dignitari. 

Allontanandosi da Roma e spingendosi sulla via Flaminia verso Prima Porta, il ristorante obbligato era Garibaldi, dove però Fellini non pagava il conto; dopo la vittoria del Premio Oscar con Amarcord, era inteso che l’ammontare venisse messo d’ufficio a carico di Franco Cristaldi, il produttore, che era cliente abituale poiché nella zona possedeva sia la villa in cui abitava che i teatri di posa Vides.

Ciò che sempre sorprendeva era la spontanea complicità che immediatamente si stabiliva all’ingresso del regista: Fellini era trattato dovunque, dal Toscano, da Giuseppe a via Brunetti, al Fico Nuovo, da Checco al 13°, al Paradiso Terrestre su via della Capannelle, a La Cascina, all’Osteria dell’Orso, alla Vigna dei Cardinali, all’Osteria dell’Antiquario in via dei Coronari, a I due ladroni di Corso Francia, dal Pompiere nel Ghetto Ebraico, al pari di un figlio che torna a casa; al suo apparire esplodeva sempre la stessa festa. 

Per la leggendaria Cesarina era più di un figlio; ecco perché di lei è stato necessario scrivere una voce a parte; la sua storia, per essere onorata convenientemente, merita un intero capitolo.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21