FELLINIESQUE/FELLINIANO (cinquantesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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“Ho sempre aspirato a diventare un aggettivo;” scherzava Federico aggiungendo: “anche se non capisco cosa significhi Felliniesque”.
Federico rifuggiva la tentazione di farsi identificare persino con i miti creati da lui stesso.

Una volta un consorzio nazionale di editori cercò di coinvolgerlo in una campagna pubblicitaria per la promozione dei libri e della lettura. Accettò subito. “Tu cosa proporresti?” Mi chiese. “Utilizzerei dei fellinemi.” Risposi utilizzando il gergo dello strutturalismo allora in voga, reso familiare da Pasolini in veste di linguista, e da Umberto Eco che aveva introdotto la semiologia nell’analisi del linguaggio. “Che cazzo sarebbero i fellinemi!?” Si inalberò Fellini insofferente a ogni intellettualismo. Cercai di placarlo: “Le immagini che ti hanno reso famoso nel mondo, che ognuno associa ai tuoi film: non so, Anita Ekberg nella Fontana di Trevi, il Pavone che fa la ruota sotto i fiocchi di neve nella piazza del Borgo, il Rex pavesato di luci che passa in alto mare nella notte, Gelsomina che suona la tromba avvolta nel cappottone militare; quei momenti di stupefazione, incancellabili, che hai disseminato in ogni tuo film.”  “E perché dovrei usarli?”  Insistei pedante: “Sono simboli depositati nell’immaginario collettivo e indissociabili da te. Funzionano autonomamente, non hai bisogno di aggiungere nient’altro, esistono di per sé stessi, svolgono al tuo posto la funzione di testimonial, ti rappresentano.” “Sono cose che ho già fatto.”  Tagliò corto. E si guardò bene dall’accogliere l’dea di rifriggere i propri ‘fellinemi’.

Poi puntualmente accadde che, alcuni anni dopo la sua scomparsa, fu girata in Italia la pubblicità di una famosa acqua minerale che riproponeva fedelmente la scena di Sylvia “ghiaccio bollente” nella Fontana di Trevi. E in seguito Francis F. Coppola, per pubblicizzare una ben nota marca di caffè triestino, utilizzò Leopoldo Trieste come attore testimonial e ricostruì nella pineta di Fregene l’indimenticabile scena dell’altalena di Lo Sceicco Bianco.

A dimostrazione che i fellinemi esistono, anche avulsi dalle storie per le quali erano stati creati.

 

Ma Fellini, come ogni vero artista, era insofferente alle etichette, recalcitrante agli incasellamenti, da cui ci si può solo attendere di essere intrappolati; quasi timoroso che qualsiasi schematizzazione gli togliesse spontaneità, lo costringesse, sia pure involontariamente, ad assecondare l’attesa del pubblico verso una rappresentazione banale e prevedibile. Provava il fastidio di essere confinato in uno stereotipo altrettanto generico che convenzionale. Se infatti nella lingua italiana il termine ‘felliniano’ rappresenta una plausibile aggettivazione del suo cognome, al pari di balzacchiano o manzoniano, “felliniesque” nel lessico anglosassone appare piuttosto un derivato, simile a burlesque o grotesque; una volta scolorita o perduta la memoria della radice, la parola evocherà una generica enfatizzazione, una deformazione baroccheggiante della realtà, oppure una baraonda da circo scombinata e un po’ manicomiale. Non esattamente la definizione che Federico avrebbe desiderato venisse applicata al proprio stile cinematografico.

La specificità della sua ispirazione artistica non poggiava nella ricerca fine a sé stessa dello stravagante, ma alludeva a quella prospettiva sfuggente, non euclidea, che è caratteristica dei sogni, dove certe linee e dimensioni si alterano rendendo visibile ciò che è mimetizzato dietro l’impalpabile cortina dell’inconscio.

Nel cinema di Fellini la costruzione di immagini non si basava su un accumulo ridondante di materiale figurativo, quanto piuttosto sulla ricerca di una espressività unica e misteriosa che una ben dosata amplificazione semantica riusciva a far affiorare.

Parlando di Fellini risulta più illuminante indagare sulla sua visionarietà, cioè quel genere di sguardo che si spinge oltre la comune superficie della realtà, la trapassa, la oltrepassa, per coglierne il significato ulteriore, meno immediatamente percettibile. Ecco perché se da un lato Federico, come ogni artista, era senza dubbio appagato dal successo, dal riconoscimento, e dall’idea che il suo nome godesse di una popolarità così universale da figurare come aggettivo nei dizionari; dall’altro riteneva che l’attributo non riflettesse correttamente la peculiarità della propria espressione artistica, bensì ne enfatizzasse piuttosto l’aspetto esteriore, pittoresco e alla fin fine riduttivo.

Capitava quindi che si infastidisse di fronte all’uso improprio che ne veniva fatto non tanto dagli studiosi, i quali in buona fede cercavano di ricavarne una categoria interpretativa, quanto dai notisti di colore, dai divulgatori epidermici, o anche dalle persone comuni che si appropriavano della definizione a volte senza neppure aver visto i suoi film o averci riflettuto un solo istante. Lo irritava sentirsi ingabbiato in un luogo comune, in una formuletta di comodo che travisava il suo stile in bizzarria.  Un rischio a cui si espone per esempio la glossa dei dizionari americani:

Felliniesque” has come to mean a certain Italian sophistication yet earthiness, a fascination with the bizarre yet a love of simplicity all wrapped in a flamboyant Mediterranean approach to life and art. (E ancora) “These films also contain magic moments that transcended realism, and they introduced the world to a certain flamboyant lyricism we now label Felliniesque.”

(traduco):

“Felliniesque” ha finito per significare una certa raffinatezza italiana, ancora tellurica, un fascino per il bizzarro ma anche un amore per la semplicità, tutto avvolto in un fiammeggiante approccio mediterraneo alla vita e all’arte.

“Questi film contengono inoltre momenti magici che hanno trasceso il realismo e hanno presentato al mondo un certo lirismo fiammeggiante che ora etichettiamo Felliniesque.”

 

Per alludere a una categoria meno approssimativa che comprenda in sé il felliniano e anche il felliniesque, possono meglio soccorrerci quelle unità linguistiche a cui accennavamo in precedenza, i ‘fellinemi’, che forse ci consentono di formulare una definizione di ‘poetica’.

Nei film di Fellini esistono alcune costanti narrative che risultano più rilevanti di un generico folklore ‘felliniano’ individuato con la dismisura e la stravaganza; ci sono precise emozioni che solo il regista riminese e nessun altro ha saputo suscitare, proprio in virtù del suo sguardo unico e inconfondibile.

“L’originalità artistica ha solo sé stessa da copiare”, afferma Vladimir Nabokov nelle sue “Lezioni di letteratura”.

E’ compito della poesia, e dell’opera d’arte in genere, reinventare la lingua, purificandola dal logorio, rinnovandone il potenziale evocativo di significati profondi, fino a quel momento dispersi o dimenticati.

Per sua natura Federico disponeva della facoltà di vedere l’invisibile, ed è questa particolare attitudine che potrebbe essere associata a ciò che normalmente cade sotto l’aggettivo felliniano, o felliniesque, e che fin dalla mia tesi di laurea credetti di riassumere nell’espressione: “onirismo veggente”.

L’unicità dello sguardo, così esatto, che Fellini trasponeva nel cinema, era null’altro che la sua visione di ogni fenomeno della vita quotidiana; gli avvenimenti, le persone, gli oggetti, gli scorci su cui i suoi occhi si posavano assumevano una luce diversa; mostravano per così dire un sembiante insospettabile: forse il ‘noumeno’ platonico, chissà, un’essenza che rimaneva nascosta alla percezione ordinaria.

Federico poco gradiva vedere abbinato il proprio stile a baracconate vuote e fuori luogo. Erano i suoi personaggi, semmai, a legittimare la qualifica di felliniesque: Gelsomina, Cabiria, Giudizio, i due giovani clochards che nella sequenza finale di La Voce della Luna danzano solitari nella piazza ormai deserta del paese; creature affettuose, innocenti e stupefatte, che beccheggiano sotto e sopra la linea di galleggiamento tra la vita reale e la proiezione onirica. Da loro distilliamo la vera poetica di Fellini.

Non è un caso che il regista amasse appassionatamente i film di Charlot, e tra tutti Luci della Città in cui viene narrato l’amore fra il tramp, il romantico vagabondo, e la ragazza cieca. Quante volte, durante le riprese il regista inseriva in sottofondo il motivo della Violetera!

Ecco perché dalla sua fantasia zampillavano Pippo Botticella, Snàporaz, Orlando, Giacomo Casanova, Cabiria, Zampanò, il Matto, Gelsomina. E prima di ogni altro Moraldo, il mite, tenero vitellone che una mattina all’alba sale sul treno voltando le spalle al “borgo”, per correre incontro alla sua ‘vocazione’, al suo destino di cantastorie. Lui sì autenticamente felliniesque.

 

E ancora, possiamo chiamare a buona ragione felliniesque il ‘leopardiano’ Benigni che ne La voce della luna non soltanto cerca di rintracciare nel volto della donna amata i tratti incantati dell’astro d’argento, ma con il suo atteggiamento disarmato, con il suo candore, riesce a trasmetterci per contrasto la cacofonia del mondo in cui siamo immersi con scarsa consapevolezza. Ci rivela attraverso il suo sguardo disincantato una città di architetture mostruose, oppressa dalle lamiere delle auto, in ostaggio alla frenesia di folli tecnocrati che prima progettano di scardinare la luna dal cielo, e poi riescono a espiantarla come un occhio dalla sua orbita, tenendola prigioniera in un cascinale. La sacra ‘silenzïosa Luna’, attrazione già pronta per siparietti pubblicitari e consigli per gli acquisti.

A me sembra che la scandalosa innocenza di Ivo Salvini, il suo messaggio d’amore, di fiducia, di armonia, di solidarietà, l’incuranza con cui si espone al dileggio, lo eleggano già a vittima sacrificale, in una società che ha perduto l’orientamento, travolgendo senza scampo i più deboli e indifesi. Quel ‘Pinocchietto di gesso’, inerme e sorridente, non è troppo diverso da Pippo Botticella di Ginger e Fred, anziano ballerino senza gloria, male integrato, ribelle e scanzonato. Anche lui decisamente felliniesque se, come ben sappiamo, indossava in scena persino il cappello a cloche che Federico si era tolto dalla testa e gli aveva piazzato in capo per suggellare definitivamente il personaggio.

Nel 1985 Fellini aveva girato quel film per illustrare lo scenario che tanto lo inquietava: il diluvio di immagini che gli schermi domestici (non c’erano ancora gli smartphone, né i tablet, né internet) continuavano a rovesciare a valanga, a cateratta, sullo spettatore a ogni ora del giorno e della notte, avrebbero finito per introdurre, a suo giudizio, un principio di ‘derealizzazione’ nella psiche dell’individuo. Al flusso incontrollato, ininterrotto, demenziale di immagini televisive, sarebbe seguito un inevitabile vuoto di senso, un danno cognitivo di cui avrebbero sofferto soprattutto i bambini, privi delle indispensabili difese ‘immunitarie’. Travolti dal bombardamento indifferenziato dei media, essi sarebbero cresciuti incapaci di distinguere tra realtà e finzione, impoveriti di freni inibitori e proiettati in una dimensione astratta – distopica? – in tutto simile alle geometrie artificiali e alla campionatura umana dell’universo catodico.

A distanza di trent’anni la cronaca sembrerebbe confermare ogni giorno la concretezza di quell’allarme, registrando soprattutto tra gli adolescenti il dilagare di una violenza gratuita, e spesso disumana, della quale né i diretti responsabili appaiono minimamente coscienti, né la società si stupisce ormai più di tanto, rassegnata al peggio, inerte nell’elaborare una giustificazione o un rimedio, e di predisporre un antidoto.

Sull’altra sponda esisteva il cinema di Fellini, un rifugio e un baluardo; esisterebbe ancora, sarebbe di grande aiuto se fossimo in grado, o meglio se ci impegneremo seriamente a preservarlo, diffonderlo e approfondirlo come un raro deposito di salute.

Felliniesque è tutto ciò che è vero e non veristico, è tutto ciò che l’arte ci propone senza confini assegnati. E’ una formula preziosa di libertà e di conoscenza.


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