ILLUSIONISMO (quarantanovesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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C’è un passaggio di 8 ½, nella sequenza delle Terme, in cui Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) assiste allo spettacolo di un’anziana coppia di telepati, Maya e Maurice, che intrattengono il pubblico con esperimenti di magia: riescono a leggere il pensiero indovinando innocenti segreti degli ospiti dell’albergo che si prestano all’esperimento. Quando è la volta di Guido, Maya si blocca, non riesce a decifrare la frase che il protagonista ha formulato dentro di sé, e si limita a scriverne l’enigmatico contenuto sulla lavagna: ASA NISI MASA. La frase è il camuffamento della parola ‘anima’ con un ingenuo artificio in uso tra i bambini per comunicare tra loro in un linguaggio cifrato, aggiungendo a ciascuna sillaba una seconda sillaba assonante.

Terminato il numero dei fantasisti, Guido domanda a Maurice, sua vecchia conoscenza, quale accordo ci sia tra lui e la moglie per scambiarsi mentalmente le informazioni, e l’altro replica con candore, sorridendo: “Beh, ci sono dei trucchi ma c’è anche qualcosa di vero, non so come succede, ma succede…”

In quella battuta di dialogo è contenuto gran parte del mondo di Fellini, il quale non chiudeva mai nessuno spiraglio al mistero.

Tra illusionismo e magia il confine a volte può essere impercettibile, inafferrabile. C’è stato un periodo in cui ci recavamo con Federico a casa di un’amica che abitava a Palazzo Taverna nel cuore della Roma papalina, tra Panico e via di Monte Giordano; Claudia organizzava serate di intrattenimento invitando portentosi illusionisti a eseguire per un cenacolo ristretto i loro esercizi di magia: Silvan, Alexander, Toni Binarelli.

A casa della giovane e avvenente signora praticavamo anche esperimenti di spiritismo. Lei era la moglie di un potente esponente della ‘nomenklatura’ e dell’alta finanza che per i suoi molteplici incarichi pubblici era spesso assente; e in quella dimora patrizia elegantissima, con soffitti a cassettoni, arredi preziosi e alte librerie ricolme di testi antichi, ci davamo convegno in pochi intimi sapendo che la serata sarebbe andata inevitabilmente a concludersi intorno al tavolino a tre gambe. Era un gioco ma non soltanto, in quel tipico stile ‘border line’ così congeniale all’artista riminese. Una volta stabilita la catena delle mani, iniziavano i sussulti del tavolino e risuonavano i colpi secchi che corrispondevano alle lettere dell’alfabeto; le parole si formavano stentate, dando risposte spesso inquietanti, materializzando presenze che ci lasciavano qualche volta con un peso sul cuore. Sono certo che il vero medium fosse proprio Fellini, e che provenisse da lui la più consistente emanazione di energie; posava divertito da apprendista stregone ma nascondeva autentiche capacità paranormali.

Più volte nei suoi film Fellini ha inscenato sedute spiritiche al limite del grottesco, ma con dentro un inconfondibile palpito religioso. Anche ne La Dolce Vita, durante la sequenza dei nobili a Bassano di Sutri, nel castello dei Principi Odescalchi, c’è un passaggio dedicato alla drammatica trance di una signora ospite della festa.

E qui si inserisce l’interrogativo che ci conduce per via diretta alla poetica di Fellini: cosa c’è di vero nei fenomeni extrasensoriali che sfuggono per molti versi al nostro controllo razionale?

L’illusionista nel suo laboratorio, circondato dai mille strumenti del mestiere, predispone ogni minimo dettaglio, con ferrea intransigenza, per assicurare l’assoluta riuscita dello spettacolo. Che è soltanto inganno. Non avviene lo stesso per ogni forma d’arte? Cos’altro fanno lo scrittore, il pittore, lo scultore, il musicista, il regista, nelle loro opere? Caravaggio, con le segrete alchimie dei suoi colori e dei suoi pennelli dona carne viva alle figure, riesce a simulare nei suoi quadri la sostanza pressoché tattile della luce. Bernini scolpisce il marmo fino a renderlo muscolo guizzante: le dita di Apollo affondano sensualmente nelle cosce tornite di Dafne che sembrano fremere a quella stretta. La pennellata, il colpo di scalpello non lasciano spazio all’approssimazione. La musica quando è grande, anche in una semplice canzonetta, intesse un’infallibile combinazione di note in grado di trasportarci in un mondo ideale.  In una storia raccontata verbalmente ogni parola è insostituibile: ogni virgola, ogni aggettivo, ogni verbo o predicato non possono essere che quelli. In un romanzo i nessi sintattici debbono essere curati alla perfezione, incontentabilmente, per attrarre il lettore nella suggestione della pagina e condurlo a immedesimarsi in un’illusione a volte più coinvolgente della stessa realtà.

Il cinema consiste in una successione di mille, diecimila diverse inquadrature girate giorno dopo giorno, per settimane e mesi, con un esattissimo dosaggio di luci, di piani, di profondità; un’instancabile manipolazione degli sfondi, dei movimenti collettivi, degli atteggiamenti di ogni singolo attore, ripresi attraverso le differenti focalità di obiettivi in grado di impressionare l’emulsione chimica della pellicola. Si tratta di puro artificio, al quale assistiamo provando forti emozioni nei confronti di fantasmi, cioè immagini trasparenti attraversate da un raggio luminoso e ingigantite attraverso una lente su uno schermo bianco. Lo scorrere di 24 fotogrammi al secondo, una frequenza non catturabile dalla nostra retina, crea la percezione del movimento. Un inganno degli effetti ottici, un semplice espediente tecnico ottenuto con certosina pazienza da un provetto artigiano.

Tutta l’arte è illusionismo, ma quando il contenuto è eccelso è anche inarrivabile magia.  Che possiamo senza scrupolo chiamare prodigio, dal momento che per sua virtù viviamo stati di commozione non meno tumultuosi di quando siamo esposti ad accadimenti reali.

 

Proviamo ora ad ampliare il campo. L’amore stesso, quando avvertiamo in maniera così irrinunciabile di non riuscire a fare a meno di un’altra persona, non è anch’esso frutto di illusionismo? Mi pare sia proprio ciò che racconta Shakespeare nel “Sogno di una notte di mezza estate” dove Titania, Regina delle Fate, si invaghisce di un somaro!

E non è opera di illusionismo anche il sogno che ci visita durante la notte con tutti i caratteri della concretezza corporea?

E le formule rituali dei misteri orfici in cosa differiscono dall’abracadabra di Alì Baba?  “Apriti Sesamo”, e la caverna del tesoro si spalanca per noi.

Avviene qualcosa che la nostra esperienza non sa spiegare ed è questo stupore che ci lascia sospesi: come di fronte ai miracoli religiosi, alle guarigioni improvvise, ai temporanei stravolgimenti delle leggi di natura, a tutto ciò che la scienza ancora non chiarisce e che nel complesso non svelerà mai, essendo l’inconosciuto incomparabilmente più vasto, o bisognerebbe dire infinitamente più vasto, del conoscibile.

Crediamo a ciò che desideriamo, è vero. E in tale tensione si situa la forza dell’illusionismo che coincide, quando è magistrale, con la magia stessa della vita.

“Il mio scopo – dichiara il mago sul palcoscenico – è solo quello di intrattenervi; è falso pensare che ciò che io vi mostro sia vero.” Il raggiungimento di questa divina ambiguità è il fine e la gloria di ogni artista sincero.

Ecco perché Fellini, per rimuovere ogni equivoco, compie un passo in più: nel momento stesso in cui esegue il gioco di prestigio, scopre anche le carte, mostra il trucco allo spettatore.

Le barche che mette in scena, le gondole veneziane, persino il transatlantico Rex, o la motonave Gloria N. navigano a vista su un mare di plastica.

Il vero tocco da Maestro avviene in Amarcord con il passaggio del Rex al largo della costa di Rimini. Fellini non mette neppure mezzo piede fuori di Cinecittà, utilizzando la piscina dello stabilimento e una grande sagoma di nave dipinta su masonite dal decoratore di scena Italo Tomassi, con tante finestrelle bucate e illuminate da dietro come le casette dei vecchi presepi. Sullo sfondo il buio compatto della notte, davanti alla prua due spumeggianti getti d’acqua delle pompe antincendio per riprodurre i baffi dell’onda, intorno sfilacci di fumo artificiale al posto della nebbia marina e, a perfetto coronamento acustico, il muggito di una sirena che accompagnava la prodigiosa apparizione. Infine un ‘movimento indotto’, cioè un ‘carrello’ spinto sui binari nella direzione opposta a quella della presunta rotta della nave, con il quale simulare l’avanzare del transatlantico tra i flutti. L’illusione è assoluta, una sequenza emozionante, di indimenticabile verità.

Fellini può permettersi di rivelare il gioco a piacimento, proprio per dimostrare che nella rappresentazione artistica tutto è simbolico.

Nel film E la nave va, sulla tolda della Gloria N. due signore eleganti con il cappellino in testa, abbigliate con una mise in perfetto stile Belle Époque, ammirano commosse all’orizzonte il cielo incendiato da un tramonto rosso fiamma, e una delle due esclama estasiata: “Come è bello, sembra finto!” Nella finzione del racconto, esaltano la gloriosa bellezza del fenomeno naturale paragonandolo a un sublime artificio, come tutti siamo abituati a fare. Ma in questo caso il tramonto è oggettivamente finto in quanto visibilmente dipinto su un fondale. Finto al pari della stessa motonave; come di lì a poco lo spettatore scoprirà con sorpresa quando il regista, alla fine del film, ricorrendo a un inaspettato carrello ‘in allontanamento’ rivela con un ‘totale’ l’intero marchingegno: il ponte della nave è una scenografia costruita su un gigantesco bilico, che per tutta la durata della ‘navigazione’ ha riprodotto meccanicamente i movimenti del rullio e del beccheggio. Un ingegnoso stratagemma: la fantastica crociera sul Mar Egeo è stata realizzata interamente dentro il Teatro 5.


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