Diversità (il secondo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Federico era affascinato dalla diversità, in ogni suo possibile aspetto, fisico, sociale, mentale, sessuale. Nei confronti del diverso provava un istintivo, religioso rispetto, un’inesauribile curiosità. Tra le creature irregolari era attratto specialmente dai clochard, dai barboni, dai randagi. Una condizione che aveva sperimentato egli stesso arrivando a Roma, diciannovenne. Rinaldo Geleng, il suo amico di gioventù divenuto un celebre ritrattista, raccontava che alcune volte, pur senza averne alcun reale bisogno, si erano persino adattati a dormire sulle panchine di Villa Borghese insieme ai senza tetto, quasi per assecondare un arcano richiamo a indossare quei panni.
O magari prendevano una camera in una pensione vicino alla stazione e, per non pagare il conto, la mattina presto fuggivano dalla finestra calandosi in strada lungo le lenzuola arrotolate. Come due lestofanti.
Poteva anche capitare che, a tarda notte, tornassero a casa su una carrozzella senza avere i quattrini per la corsa, e allora aspettavano un tratto di strada con i sampietrini per scendere al volo, alla chetichella, sfruttando il frastuono delle ruote. Poi però, per pareggiare i conti a modo suo, Federico quando si ritrovava un po’ di denaro in tasca si accostava al primo vetturino che gli capitava a tiro e gli metteva nelle mani tutto ciò che aveva.
I due ragazzi si erano conosciuti, affamati e infreddoliti, davanti alla vetrina di una rosticceria in via Veneto, e avevano deciso di mettere insieme le proprie risorse per acquistare due supplì. “Una volta entrati, – diceva Geleng – vedevo che Federico rovistava nelle tasche, non trovava i soldi. E per giustificarsi spiegava: « Devo averli lasciati distrattamente nell’altra giacca». Così l’avevo preso in giro: «Perché c’hai anche un’altra giacca?» Ci mettemmo a ridere, e diventammo amici mangiando i supplì caldi.” Non si erano più separati.
I bene informati affermano che la vicenda s’era svolta nel mese di luglio, improbabile quindi che i due giovanotti battessero i piedi dal freddo. Ma a me sembrava indispensabile non dubitarne, perché Federico l’aveva rievocata così, come una sequenza di Charlot, forse già pensando a come l’avrebbe girata inserendola in un film. Assai più toccante e verosimile.

Già i suoi raccontini giovanili sul Marc’Aurelio avevano per protagonisti creature semplici, povere, umilissime, che vivono di briciole e di fantasia. Verso di essi agiva in lui un’immediata simpatia, quasi percepisse fin da allora, sia pure in maniera ancora imprecisa, che da quel genere di umanità sguarnita, indifesa, rinnegata sarebbe scaturita l’energia tellurica indispensabile alla sua creatività.
Il fool, il semplice, l’idiota, lo straccione, non manca mai nei suoi film: il personaggio di Giudizio, lo scemo del villaggio, compare ne I Vitelloni e giunge invariato, conservando il nome, fino ad Amarcord.
La predisposizione verso i non integrati, i non garantiti, i dropout alimenta tutto il suo cinema. Il suo primo Premio Oscar, La Strada, che lui definiva “una favola truce”, ha per protagonisti un brutale artista di strada, una povera ragazza senza famiglia e un angelico funambolo da fiera: Zampanò, Gelsomina e il Matto. “Le tre facce di Federico – ripeteva Giulietta – tutti e tre sono sempre lui”.
Nelle sue storie per lo schermo appaiono anche, per la prima volta, figure che ancora non trovavano accoglienza nell’immaginario dell’epoca. Ne I Vitelloni c’è il vecchio capocomico (Achille Majeroni) che cerca di circuire Leopoldo, aspirante drammaturgo, nei bui anfratti del porto spazzati dalla bora. In un primo tempo Federico aveva proposto la parte al grande Vittorio De Sica, il quale non aveva scartato del tutto l’ipotesi, avvertendo però il giovane collega: “ ‘Nu recchione? Ma che sia umano…” Durante le riprese de Il Bidone, Federico mi raccontava delle scaramucce e gli scherzi goliardici di Broderick Crawford a scapito di Franco Fabrizi. Ne La Dolce Vita l’autore mette addirittura in scena una giovane coppia di travestiti quando ancora in Italia nessuno sapeva neppure chi fossero, e in ogni caso era vietato parlarne. Genius, il variopinto effeminato veggente che pratica la radioestesia (cioè il pendolino), compare in Giulietta degli Spiriti, e ritorna in Block Notes di un regista. Nel Sayticon incontriamo addirittura un ermafrodito venerato pari a una divinità orfica, oracolare. E il feroce pirata Lyca (Alain Cuny) organizza addirittura sulla propria nave corsara una grottesca cerimonia nuziale, in gran pompa, per impalmare Encolpio. Nel film Roma è un maturo omosessuale azzimato a corteggiare, nel Teatrino della Barafonda, il giovane Fellini (Peter Gonzales) approdato nella Capitale. In Casanova, nella sequenza poi soppressa del Canalone Turco, era stata girata una scena di amore omofilo tra il protagonista e un raffinato principe arabo. Ma tante altre figure sessualmente eccentriche popolano quell’affresco settecentesco, a iniziare dall’estroso aristocratico Du Bois (Daniel Emilfork-Berenstein) travestito da mantide religiosa, che danza in duetto con un formoso e bramato garzoncello.
In realtà in tutte le pellicole del regista trovano posto, e non marginale, i rappresentanti ambisesso dell’ancora innominabile trasgressione.
La fantasia di Fellini si accendeva per gli scherzi di natura, i fenomeni da fiera, le creature deformi, freaks, gobbi, Saraghine e gigantesse. La sua palpitante complicità inclinava d’istinto dalla parte dei diversi, dei deboli, degli sconfitti; lo annoiavano terribilmente i generali con i galloni sulle spalle e il medagliere sul petto, i fantocci, i rodomonte; era attratto al contrario da chi non aveva un’uniforme, né un cappello con le greche e la visiera dietro cui camuffarsi; convinto che tutto ciò che maschera e nasconde, finisce col sopprimere, inibire e distorcere la nostra più autentica natura.

Non soltanto le narrazioni cinematografiche, ma anche i set di Fellini costituivano l’abituale rifugio di una umanità negletta o degradata; persone che il regista amava portarsi dietro film dopo film, come una corte dei miracoli, inventando per loro ruoli e pose del tutto pretestuosi perché venissero remunerati dalla produzione. C’era un piccolo elfo deforme che viveva di elemosina leggendo la mano nei pressi di Piazza del Popolo; si chiamava Vincenzo Caldarola, dormiva sotto i ponti e si aggirava carico di buste di plastica, stringendo in pugno un bastone ricurvo da pastore sannita. Uno sgorbio umano. Federico gli fece interpretare l’emiro di Amarcord, che arriva al Grand Hotel col codazzo del suo harem protetto dagli àscari armati di scimitarre. Indimenticabile.
In Luci del Varietà, la sua primissima esperienza di regia a quattro mani con Alberto Lattuada, a un certo punto compare nella notte, del tutto incongruamente, un massiccio trombettista nero (John Kitzmiller) che col suo strumento puntato verso il cielo sembra interpretare la disperazione amorosa del capocomico (Peppino De Filippo) abbandonato dalla giovane soubrette (Carla Del Poggio). L’impronta inequivocabile di Federico.
Il suo ultimo film testamento, La voce della Luna, si chiude sulla giovane coppia di clochard che, a notte alta, quando tutto è consumato, continua a danzare, innocente e solitaria, nella piazza deserta del paese.
Nel finale di Ginger e Fred, l’opera del simbolico congedo di una coppia di guitti, il protagonista Pippo Botticella (Marcello Mastroianni) si saluta con la sua compagna di tiptap (Giulietta Masina) accompagnandola al treno, e nel breve istante che lei si volta per salire sul vagone, lui è già lontano, dileguato tra i diseredati della Stazione Termini.


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