“Re Granchio”, di Alessio Rigo De Righi e Matteo Zoppis, Ita, Fra, Arg, 2021. Con Gabriele Silli, Maria Alexandra Lungu

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Con rimandi tra presente e passato, fine Ottocento, con ambientazione doppia, nella Tuscia e nella lontana Terra del Fuoco, e con la suddivisione in due capitoli, l’opera d’esordio di De Righi e Zoppis impegna lo spettatore in una immersione totale tra Storia e Sentimento. Luciano vive da solitario ed emarginato il suo essere contro in una società ingiusta, e l’essere ricordato, ancora oggi, nel bar di un piccolo paese dell’entroterra laziale ne fa un personaggio mitico e leggendario. Fuggito in America del Sud, per scampare all’ennesima ingiusta accusa di omicidio, addirittura nei confronti della giovane donna da lui amata, Emma, l’uomo cercherà di sopravvivere alle avversità impegnandosi nella ricerca di un tesoro, che una narrazione locale vuole sepolto sotto le acque di un lago, cui si potrà giungere soltanto guidati da un granchio. Le straordinarie luci caravaggesche della prima parte del film, che illuminano contenuti e forme fortemente ispirate alle opere in costume dei fratelli Taviani, tra antropologia ed epica sociale, e gli immensi spazi della Terra del Fuoco della seconda parte, che rimandano ai film “sudamericani” di Werner Herzog, anche per i motivi di fondo della necessaria ricerca dell’impossibile, regalano un racconto fatto di terra, fango, acqua avvelenata e aurifera, in un mix di sudore e magia alla Jodorowsky, che i due giovani autori riescono ad elaborare al meglio, guidati da una ispirazione che sembra espandersi con l’evoluzione della trama. Più il film entra dentro le sue ragioni più la sua forma diventa ampia ed immersiva, a metà tra il movimento fisico pressoché costante di Luciano e il suo continuo interrogarsi sul senso stesso della permanenza dell’uomo in questo mondo. Non è un caso che il protagonista, nella seconda parte del film, assumerà un’altra identità, nella fattispecie quella di un prete appena morto, come accadde al David Locke-Jack Nicholson di “Professione:reporter” di Michelangelo Antonioni, una delle massime espressioni del cinema che indaga le ragioni della nostra esistenza. L’approdo di Luciano al lago dell’oro e l’incontro fuggevole con il fantasma dell’amata Emma, confermerà in pieno il suo dire precedente in abito talare. A chi gli chiedeva quale fosse il destino dell’uomo, egli rispondeva che l’unica condizione che tutti ci riguarda, colpevoli o innocenti, sarà l’essere destinati all’illusione, perchè soltanto questa potrà dimensionare la nostra esistenza priva di qualsiasi guida. Davvero un film raro, di quelli che fanno ben sperare per il futuro della nostra cinematografia.

 


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