GIULIETTA – 2 (il settimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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Giulietta amava la danza, tanto quanto recitare. A Siviglia, in Spagna, in occasione di una festa in suo onore, aveva incantato gli ospiti con le sue improvvisazioni di Flamenco, eseguite a orecchio, d’istinto, affidandosi semplicemente alla musica e al solletico del corpo. Non mi stupisce, ripensandoci, che in tanti anni di frequentazione abbiamo scoperto un affetto più complice proprio in occasione del “Balletto La Strada”, etoile Oriella Dorella, che diressi nella versione televisiva al Teatro alla Scala di Milano, e che le dedicai in apertura dei titoli di testa.  Nel materiale di corredo che girai in occasione di quell’evento esiste anche un’intervista in cui Giulietta parla del film La Strada, con la sua tipica vivacità coinvolgente, le mani che volano nell’aria accompagnando le parole, il viso ridente e monellesco, da femmina di razza e da irresistibile clown, un abbinamento che indusse il grande Charlie Chaplin a coniare per lei l’appellativo di Charlot donna. 

Giulietta era magra, scattante, nervosa, e si muoveva naturalmente con passi da ballerina, come se misurasse un tempo interiore; anche portando un piatto in tavola, le sue movenze seguivano un’invisibile coreografia. Se udiva nell’aria una musica, accennava spontaneamente qualche passo. Federico era molto ammirato da questa sua inclinazione, al punto di cucirle addosso il personaggio di una ballerina in pensione nell’ultimo film su di lei concepito, Ginger e Fred. Così Giulietta conclude da danzatrice di tiptap, quale forse avrebbe sempre aspirato a diventare, la sua carriera folgorante accanto al marito. 

Nel primo vero film di Fellini, Lo sceicco bianco, aveva interpretato un personaggio secondario. Il cuor suo avrebbe tanto desiderato impersonare il ruolo della protagonista Wanda, la sposina in viaggio di nozze a Roma, che fugge dalla pensione in cui ha appena preso alloggio insieme al neo sposo Ivan Cavalli (Leopoldo Trieste). Trafelata corre in segreto nella redazione di un giornale di fotoromanzi a incontrare lo Sceicco Bianco, idolo dei suoi sogni (Alberto Sordi), provocando una vera tragicomica baraonda. 

“Brunella Bovo è stata bravissima, ma io l’avrei fatto meglio!” Mi confidò Giulietta riferendosi al personaggio, in un’intervista filmata nella quale per la prima volta lasciò trapelare l’antica e non ancora sopita amarezza. A lei spettò invece la parte di Cabiria (attenti al nome!) la piccola peripatetica che l’infelice marito abbandonato incrocia a notte fonda in Piazza Campitelli; una  creaturina bizzarra e romantica che appare e svanisce nel giro di un’unica sequenza, ma fa in tempo a restare impressa nella memoria. E anche ad accennare quei pochi movimenti di danza che si trasformeranno in sfrontate esibizioni quando il personaggio, cresciuto nell’immaginazione di Fellini, diventerà la protagonista di Le Notti di Cabiria, il film più amato dall’attrice, consapevole di avervi riversato anche una consistente porzione di sé stessa. 

E’ una prostituta ingenua e buffa delle borgate romane che insegue un’esistenza pulita, sognando un compagno, una casa, una storia d’amore; se qualcuno le fa una carezza è pronta a cadergli ai piedi, e l’altro se ne approfitta. Con indosso un bolerino di piume di pollo e i calzini bianchi ai piedi, finalmente può scatenarsi in un vero ‘mambo’ mentre insieme alle colleghe attende i clienti sulla Passeggiata Archeologica; balla in coppia con un giovane pappone che si vanta di essere “er mejo tacco de Roma”. Giulietta rotea, ancheggia, intreccia figurazioni, tiene la scena con una esultanza che le sprizza dai pori e dagli occhi raggianti. E’proprio lei, come intimamente amava apparire. Parlando nel proprio carattere, l’attrice confessava:

 «Se mi devo arrabbiare lo faccio, però dopo due minuti mi passa. Tutti mi dicono che sono una roccia, che ho un carattere fortissimo. Ma io non lo so se è veramente così. Forse lo dicono perché lo sembro, perché sono ottimista, ho fede, fiducia. Sono molto Cabiria in certe cose».

La figura di Cabiria andrebbe ricordata in nome di tutte le donne che in ogni latitudine del mondo ogni giorno vengono violate, usurpate, straziate, uccise. Donne che amano e si abbandonano con tutte se stesse all’amore, andando per questo incontro a ingiustizie, amarezze e delusioni. E qualche volta a vere tragedie; dalle quali nondimeno si rialzano sempre, pronte di nuovo a combattere, a credere e ad amare senza risparmio. In una parola, a vivere.

All’inizio della storia la incontriamo in compagnia di un borgataro manigoldo che le fa gli occhi dolci ma che pur di strapparle la borsetta tenta di annegarla nel Tevere. Alla fine del film, dopo tante avventure e traversie, la ritroviamo in una situazione non diversa, come se l’esperienza non le avesse insegnato nulla. Un sedicente ragioniere dai modi garbati (François Pérrier) la avvicina al termine di uno spettacolo di varietà, la corteggia, la invita a una gita sui colli romani, le promette di sposarla, di ricominciare una vita insieme. Lei vende la catapecchia abusiva in cui vive, raduna tutti i risparmi, si reca festosa all’appuntamento sul lago di Castel Gandolfo, per una specie di festa di fidanzamento. Ma dopo pranzo il malfattore, proponendole una passeggiata romantica nel bosco, cerca di ucciderla spingendola nello strapiombo per portarle via il denaro. 

Il crudele voltafaccia dell’uomo, l’ennesimo della sua vita, le strappa letteralmente il cuore dal petto: “Ammazzeme, buttami giù, non voglio più vive!” Urla singhiozzando mentre l’altro le ruba la borsetta e fugge.

Stravolta, contusa, umiliata, senza più un soldo né un tetto a cui tornare, Cabiria in un nero abisso di angoscia riguadagna faticosamente la strada asfaltata che costeggia la boscaglia. Cammina senza una meta, intontita, assente, finché non le si affianca un gruppo di ragazzi e ragazze muniti di fisarmoniche, chitarre, armoniche a bocca. Suonano un’allegra stornellata, le ruotano intorno, la circondano di una gioia imprevista, contagiosa. Una di loro le si rivolge affettuosa: “Buonasera!” 

E lei all’improvviso ritrova il sorriso, il volto rigato di lacrime si apre alla speranza, di nuovo pronta a ripartire. Volgendo il viso intorno finisce per orientare lo sguardo verso la macchina da presa (grave ‘errore’ nella grammatica filmica), guarda dritto all’obiettivo come volesse rivolgersi a tutti noi, avvolgerci nel suo stesso stupore, accesa di gratitudine e di un bagliore che non si è spento; di nuovo disponibile a ricominciare da capo, come se nulla fosse successo.  

Grazie al personaggio di Cabiria, il film conquista il Premio Oscar, il secondo della coppia dopo “La Strada”. Federico non può spostarsi per impegni di lavoro; l’attrice vola da sola a Hollywood a ritirarlo, e per  la cena di gala le viene assegnato il posto d’onore, circondata dai divi più famosi del mondo. Proprio al suo fianco siede Clark Gable, da sempre il suo idolo, al quale facendosi coraggio chiede di firmarle un autografo. Come una candida adolescente. E lui le risponde sorpreso, con la sua sonora risata: “Giulietta sei tu che hai vinto l’Oscar e sono io che devo chiederlo a te!” 

Tornando a Roma l’aveva raccontato a Federico, che ne gongolava felice, ma anche un po’ geloso di quell’attore maliardo che lei ammirava tanto: “Figurarsi, con quelle orecchie a sventola!” Glielo aveva demolito dispettoso. 

Quando uscì, nel 1957, Le notti di Cabiria riscosse un successo clamoroso: chissà quanto coraggio sarà riuscito ad infondere nelle donne di allora. E chissà quanto bene riuscirebbe a recare anche oggi a tutte le ragazze irreparabilmente aggredite, sfregiate, malmenate, da una assurda e odiosa violenza maschile che non si placa. Nel personaggio di Cabiria troverebbero magari l’orgoglio e la forza d’animo per reagire; mai più schiacciate nel ruolo di vittime, al contrario, decise ad affermare a testa alta una specificità e forse una superiorità umana che nessuna prepotenza potrà mai piegare. 

Alcuni anni dopo, nel corso di una conferenza stampa per Giulietta degli Spiriti, Federico in tempi in cui il femminismo era ancora una parola sconosciuta, un concetto socialmente irrilevante, aveva affermato:

Nessun uomo sarà libero finché non sarà libera anche l’ultima donna”.

Allora onoriamo Giulietta riguardando i suoi film: La Strada, Il Bidone, Le Notti di Cabiria, Giulietta degli Spiriti, Ginger e Fred; uno a caso, quello che viene per le mani. E chi ha dei ragazzi, se li tenga vicini, condivida la visione con loro.  Sarà non soltanto l’omaggio più autentico a un’attrice fuori dal comune, ma anche un’ottima riserva di ossigeno in un clima spesso avvelenato.


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