VERSO IL FORUM DI ASSISI – “Ricominciare dalla periferia rovesciando il senso di marcia”

0 0

Il giornalista si trova sempre tra due fuochi, ma ora, con l’avanzare delle nuove tecnologie i problemi si sono accentuati, insieme alle nuove opportunità. Da una parte il rischio di trasformarsi in trasmettitore di tradizionali veline o di modernissimi videomessaggi, dove la funzione prevalente della committenza orienta il senso della notizia prevaricando l’autonomia, fino alla frustrazione della autocensura, con la rinuncia alla provocazione della domanda chiarificatrice, che fa la tara alla retorica, puntando alla sostanza. E magari seguito dall’abbandono del giornalismo di inchiesta e della funzione di controllo. Dall’altra il web che ha la capacità destabilizzante di far invecchiare le notizie tra le mani, con un twitt al di fuori dei normali canali e delle sale stampa.
Di fronte alla deregulation spiazzante del web, è il caso di tornare a fare inchieste e documentari, magari da distribuire nei nuovi media evitando l’effetto talk show, riportando al centro il lettore utente con la narrazione in presa diretta del paese reale. Con la consapevolezza però, che non solo le campagne elettorali si giocano tutte sui talk, ma spesso anche l’informazione quotidiana, sapendo quindi di correre il rischio di diventare marginali una volta usciti dal mainstream.
Le nuove frontiere del giornalismo, del web e dei nuovi media, non devono comunque ridursi al gioco dell’uso asettico di una nuova tecnologia veloce ma evirata, che non affonda nel vivo, ma sorvola sui problemi, contribuendo ad ampliare la melassa dell’informazione orecchiata e inautentica e spesso ripetitiva.
Per la rinascita della Rai, bisogna ricominciare dalle periferie, dal fondo, invertendo il senso di marcia, per un’informazione partecipata, dove il feedback vuol dire dialogo nell’approfondimento, senza rinunciare alla critica e alla verifica dell’attendibilità. A livello periferico è più facile proporsi un modello nuovo di “comunità di informazione” con piattaforma partecipata, alla luce della fraternità francescana, il modello cioè del dialogo e della “comunicazione bene comune”.
Ormai i cittadini stessi, con telefonini e telecamere raccontano dal vivo fatti irraggiungibili in tempo reale e imprevedibili per varietà, che necessitano di vaglio critico e analisi, cui è impossibile rinunciare, perché, che la notizia provenga dal basso o dall’alto, il giornalista si distingue dal portavoce e il filtro della libera valutazione è la sua specifica cifra, per quanto possibile libera anche dalla propria ideologia, che va dichiarata, essendo impossibile prescinderne del tutto anche volendo, specie se non c’è solo il mestiere, ma anche la passione a guidare le scelte.
E’ una vecchia polemica risalente alla filosofia italiana dell’inizio del secolo scorso, con la critica idealistica alla presunta obiettività del “fatto”, mito positivistico della fine dell’ottocento, che ha portato nel prosieguo del novecento alle posizioni estreme del relativismo ermeneutico, per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, subito tradotta nell’affermazione degenerativa dei mestieranti, che la tv non ha bisogno di verità, fino alla becera manipolazione dei “narratori” di una tv come racconto ininterrotto, per cui la verità non deve rovinare una bella storia.
Tutti abbiamo potuto constatare la deriva degenerativa del cosiddetto “reality” e la sua forza manipolativa del reale, tanto che l’attenzione ora si è spostata sul “factual documentary”, anche frammentato, come spezzone utilizzabile dall’inchiesta-verità giornalistica. E tutti abbiamo avuto sotto gli occhi le aberrazioni operate con il “metodo Boffo” applicato all’avversario politico, nel tentativo di minarne la credibilità, che ha comportato il travolgimento della dignità e del diritto della persona.
La soluzione a questo eterno dilemma del giornalista sta nell’autonomia e nell’onestà intellettuale, che impone di interrogarsi sulle vere cause anche remote dei fatti e rendere esplicita ogni tipo di conseguenza, gradevole o sgradevole che sia per il proprio bagaglio ideologico.
Ma non può essere tutto caricato sulle spalle del singolo giornalista avulso dal contesto, la struttura deve aiutare i processi di autonomia, la creatività elaborativa e l’innovazione e favorire le aggregazioni di comunità e le sperimentazioni locali, dove la web-tv, il city journalism e i forum di discussione, potrebbero, senza necessariamente pensare a utopiche fughe in avanti, diventare terreno di sperimentazione di nuovi linguaggi. C’è bisogno agevolare i “missionari dell’informazione”, per tornare ad una metafora francescana, in modo da raggiungere quei luoghi di frontiera, difficili da seguire per l’informazione convenzionale, che possono ridare alla Rai una nuova idea di servizio pubblico. Ridando voce a chi l’ha persa, ponendo al centro del dibattito pubblico angoli oscuri della società, il servizio torna appunto ad essere pubblico.
Sarebbe perciò estremamente deleterio alla Rai continuare nell’attuale accentramento del potere nelle mani dei delegati dei politici, nella logica spartitoria che premia le fedeltà di cordata e non la professionalità, con la nota percentuale: su cinque nuovi assunti, quattro lottizzati e uno bravo. Meglio a questo punto un amministratore unico e la trasformazione della Rai in fondazione, con criteri di nomina partecipati, pubblici, trasparenti, dove la professionalità sia il criterio guida e sia valorizzato il radicamento sul territorio, ma senza isolamento, anzi con partecipazioni verticali nei settori creativi, soprattutto a livello culturale, per la circolazione continua delle idee. E non è detto che tutto ciò non possa andare a beneficio anche delle logiche di mercato.
Naturalmente questo presuppone una legge seria sul conflitto di interessi e che sia fugato ogni rischio di privatizzazione e di spezzettamento dell’Ente, che amplierebbe la tendenza alla frantumazione dell’informazione.
Già la connettività globale con la ridondanza e le interferenze dell’eccesso di offerta informativa, crea frantumazione percettiva e incertezza dell’ascolto sempre più distratto dal twitt che scorre in sottopancia alle immagini, con il rischio di vaghe tendenze alla schizofrenia o all’impulso del rigetto. Ciò induce per compensazione alla ricerca del sensazionalismo e alla spettacolarizzazione specie del dramma, con un circolo ansiogeno forzato che si morde la coda e che è tipico del talk show, dove il personaggio ha preso il posto del giornalista e si produce nelle compagnie di giro in chiassose chiacchierate senza approfondimenti reali e soprattutto senza verifiche delle libere affermazioni.
La frantumazione dell’Ente finalizzata alla vendita a pezzi ai privati sarebbe la peggior iattura per la cultura italiana, cosa che fa il paio con il centralismo gestionale, finora sperimentato, a danno della creatività e di una visione unitaria vivificata dalle comunità informative regionali, che si ponga a modello per la tutela del diritto elementare di informare ed essere informati.

* caporedattore della rivista San Francesco

GLI INTERVENTI FIN QUI PERVENUTI AL FORUM: 


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21