FORUM ARTICOLO21 – “L’importanza del giornalismo in un Paese “apolitico”

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“Siamo giornalisti, non postini”: fu questa la formidabile risposta che Enzo Biagi fornì, da direttore del telegiornale, a una precisa richiesta dell’allora presidente del Consiglio, Amintore Fanfani. Le cose andarono così: siamo nei primi anni Sessanta e c’era stato un incidente ferroviario su una linea a scartamento ridotto in Calabria; Fanfani inviò un telegramma di cordoglio ai familiari delle vittime e Biagi si rifiutò di darne conto, adducendo la memorabile risposta di cui sopra.
Ve l’immaginate un episodio del genere ai giorni nostri? Pur essendoci in RAI giornalisti e direttori di prima qualità, il problema non risiede tanto nel valore umano dei singoli quanto nel valore professionale e nell’autonomia della struttura nel suo complesso.
Il punto che molti eludono e pochi – sempre meno, a dire il vero – si soffermano a considerare, è questo: quanto più la politica si indebolisce, tanto più diventa invadente, soffocando quegli spazzi di libertà, di autonomia, di progresso, di sviluppo culturale e sociale che, al contrario, dovrebbe limitarsi ad osservare e accompagnare. E tanto più si indebolisce la politica, tanto più si degrada la società, in un trionfo di mediocrità, incompetenza, inadeguatezza, promozioni per fedeltà anziché per effettivi meriti, luoghi comuni, frasi fatte e tutto ciò che abbiamo visto e condannato con vigore nell’ultimo ventennio.
Fino ad arrivare al disastro attuale, con un Paese diviso in tre fazioni tragicamente inconciliabili, capaci in alcuni casi di unire le rispettive debolezze ma assolutamente incapaci di rispettarsi, confrontarsi e discutere su un qualunque tema concreto, meno che mai sull’importanza della libertà d’informazione per garantire la piena tutela del sistema democratico.
Qual è, dunque, il ruolo del giornalismo e dei giornalisti oggi? L’ambiziosa domanda ce l’ha posta qualche giorno fa il direttore Stefano Corradino, invitandoci a rispondere e a toccare le innumerevoli sfaccettature di un argomento tanto vasto quanto estremamente complesso.
Dal mio punto di vista, essere dei buoni giornalisti oggi significa denunciare con puntualità e precisione le innumerevoli storture di un sistema che oramai non regge più da parecchio tempo; significa viaggiare, consumare le suole delle scarpe, essere curiosi e condurre il taccuino o la telecamera dove nessun altro è ancora andato, specie coloro che prediligono le beghe interne dei vari partiti alla bellezza e al valore incommensurabile del racconto quotidiano della società.
Tuttavia, soprattutto in un Paese oramai apolitico o, per meglio dire, anti-politico e, più precisamente, anti-partitico come il nostro, significa anche contrastare ogni forma di populismo e demagogia, valorizzare le idee dove ce ne sono ed evitare di gettare tutti nello stesso calderone del discredito e della condanna senza appello.
Se qualcosa ho imparato, in quasi dieci anni che svolgo questo nobile mestiere, è che il giornalismo, checché ne pensi qualcuno, richiede soprattutto misura, equilibrio e lucidità: le tre virtù che mancano alla nostra società e alla nostra classe dirigente, come ha ampiamente dimostrato l’esito delle elezioni dello scorso 24 e 25 febbraio.


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