Operazione “Claw sword”, “Spada ad artiglio”. E’ la quarta missione militare in sei anni di Ankara nel Rojava

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Operazione “Claw sword”, Spada ad artiglio”, il solo nome fa tremare le vene e i polsi. E’ la quarta missione militare in sei anni, lanciata da Ankara contro la regione nordorientale del Rojava al confine turco-siriano per dare una “risposta” alla strage di Istanbul del 13 novembre scorso. L’atto terroristico non è stato rivendicato da alcun gruppo. Tuttavia, dopo l’arresto di una donna, le autorità di Ankara hanno attribuito le responsabilità al Partito dell’Unione democratica curda siriana (Pyd), frangia del Partito dei lavoratori del Kurdistan turco (Pkk) e alle Unità curde di protezione popolare (Ypg) dislocate nel nord della Siria. La nuova offensiva dell’alleato della Nato, che veste ora i panni del mediatore di pace nel conflitto fra Kiev e Mosca, punta a alla creazione di una zona cuscinetto, definita da alcune fonti siriane come la “nuova Striscia di Gaza”.

L’obiettivo è di collocare i tre milioni di profughi siriani, attualmente presenti nel suo territorio. E così nella notte di sabato 19 novembre i raid dell’aviazione turca hanno iniziato a bombardare diversi centri della zona nordorientale del Paese, fa cui Kobane, la città divenuta famosa per la resistenza al Daesh, i villaggi nelle campagne di Afrin (già conquistata dalle truppe di Ankara nel 2018, con l’operazione “Ramoscello d’ulivo”), Manbij, al-Hasakah, fino a spingersi al-Shahbah, nell’area rurale a nord di Aleppo. Il bilancio delle vittime è di almeno 63 persone, fra combattenti curdi delle Forze democratiche siriane (Sdf), soldati del regime e un giornalista curdo. Morti che si sommano alle 16.913 vittime, provocate dal 2017 ad oggi nella lotta di Ankara al “terrorismo” nei suoi confini. Fonti locali riferiscono che è in corso un nuovo esodo, iniziato già a maggio con quasi 10mila persone fuggite verso Iraq, Algeria, Libano e Libia. L’area di Shahba, sorvegliata dai russi e dall’esercito del regime, ospita 16mila famiglie sfollate della città curda di Afrin, che hanno trovato rifugio in 40 villaggi e cinque campi della zona. «Siamo molto preoccupati- riferisce da uno campo profughi Hasan Ivanian, curdo siriano di fede cristiana- vorremmo andare via, ma non abbiamo scelta.

L’inverno è iniziato, qui è molto duro, l’unica alternativa è restare e difenderci, ma non so quanto resisteremo ai raid aerei». Intanto, il segretario alla Difesa Lloyd J. Austin in un colloquio telefonico con il ministro della Difesa turco Hulusi Akar il 30 novembre scorso, ha ribadito “l’importanza dei rapporti strategici fra Stati Uniti e Turchia”, ma ha anche espresso “preoccupazione per l’escalation dell’azione (militare, ndr) nel nord della Siria e in Turchia”, si legge in una nota del Pentagono. Un atto dovuto l’intervento di Austin, dopo i recenti attacchi aerei che hanno minacciato anche la sicurezza del personale statunitense impegnato con le Sdf nel contrasto alle milizie del Daesh ancora presenti sul territorio. I bombardamenti turchi contro i loro aguzzini curdi pure nel campo-prigione di al-Hol, finiscono per favorire una riorganizzazione delle cosiddette “cellule dormienti”.  Il segretario della Difesa ha chiesto quindi di fermare l’escalation, dichiarando la contrarietà del dipartimento a una nuova azione turca in Siria. E intanto Ankara sta già serrando le file per un attacco di terra, forte dell’appoggio dell’Esercito nazionale siriano (Sna). Pure la Russia di Putin, presente sul terreno dal 2016, si dichiara contraria all’intervento militare, invitando Ankara ad astenersi da un’offensiva di terra su vasta scala. Nulla di fatto, perché nel frattempo, le forze armate turche (Tsk) continuano a colpire il Rojava e in Iraq, dove anche le Guardie della rivoluzione iraniane hanno avviato una serie di azioni militari contro i curdi in tre diverse regioni.

La ong italiana “Un ponte per”, che da anni lavora nel nord della Siria, rivolgendosi con una nota al governo italiano e alle cancellerie dell’Unione Europea chiede “un intervento immediato sulla Turchia, paese della Nato, per far cessare i bombardamenti sulla città di Kobane, sulle altre città del nord est e sul Kurdistan iracheno. Non è accettabile – scrivono- che una città martire nella lotta al Daesh sia aggredita impunemente e nel silenzio delle cancellerie occidentali, da un paese che durante il lungo assedio da parte dei jihadisti non ha mosso un dito per fermare i miliziani del califfato nero, che hanno goduto invece di complicità e di sostegno”. La organizzazione umanitaria va oltre. Punta il dito su “un uso strumentale dell’attentato a Istanbul”, con il quale “si sta scatenando una aggressione pianificata da tempo dal governo di Ankara e che gode della complicità della Russia, visto che Mosca ha consentito l’apertura all’aviazione turca dello spazio aereo siriano, interdetto dal 2019. La guerra in Ucraina e il non agire per fermarla sta avendo un effetto domino nel Medio Oriente e a pagarne il prezzo sono di nuovo i popoli. Occorre agire per bloccare questo effetto domino e per l’immediato cessate il fuoco”.

Fonte: Strumenti politici


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