Inchiesta carceri, i pugni nel muro

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C’è un vero e proprio linguaggio dei detenuti.
Un codice, segreto, la lingua usata in carcere. Comunicano come carbonari. Con i pugni battuti nel muro, da cella a cella, in passato, i carcerati raccontavano, senza parole, notizie, fatti, novità e i si dice degli ultimi arrivati.
Anni fa, del gergo in uso, ne hanno scritto e raccolto in un libro, i detenuti di San Vittore. L’hanno titolato, per l’Editrice Berti, I pugni nel muro Linguaggio e frammenti di vita dei detenuti del carcere di San Vittore. Centoventisette pagine, corredate di fotografie di Roby Schirer, al costo di sette euro. Sono vari autori, tra cui anche detenuti, impegnati, tra l’altro nella redazione del periodico Magazine 2, il giornale di San Vittore diretto da Emilia Patruno. Trecento i “lemmi” e decine le testimonianze personali riportate nella pubblicazione, oggi, non facilmente reperibile. Si va dal colloquio con i parenti alla costruzione di forni artigianali per cuocere la pizza in cella, dall’ora d’aria alla disperazione di chi si suicida. Un microcosmo raccontato per svelare, ai liberi che vivono fuori, il codice segreto della comunicazione in carcere. Una terminologia specifica dell’ambiente carcerario con le sue varianti geografiche. Una sorta di carcerese per legare tra pari di cella e compagni d’aria, e, che inquadra uno spaccato, vero, di quello che è, e si dice, in carcere, ben lontano dall’immaginario collettivo e cinematografico.
Si comincia dalla A con Abboccamento, trappola, agguato in cui attirare il nemico, alla Zeta di Zoppicare che si dice di chi nell’ambiente non si è comportato sempre bene per cui meglio non fidarsi.
Scorrendo tra i lemmi leggi tra tanti….
Zaccagnare sta per accoltellare e zaccagno per coltello.
Zombi è il detenuto tossicodipendente in crisi di astinenza e
seiequaranta truffatore. L’articolo 640 del codice penale indica il reato di truffa, da qui, chi è ritenuto poco onesto nel giro, viene chiamato seiequaranta o zanza.
Lo scopino è quello che fa le pulizie. Staziona con la ramazza nei corridoi. È uno dei lavori storici del carcere. Da un paio d’anni, nel nuovo vocabolario della vita ristretta, è definito addetto alle pulizie. Con una metonimia, la funzione dà il nome all’uomo.
Mercede, un termine vetusto, per indicare la paga dei detenuti lavoranti. Viene fissata dalla legge n° 354/1975
“in relazione alla quantità e alla qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzaione e al tipo del lavoro del detenuto, in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi”.​
A fissare le mercedi, la legge, prevede, sia una commissione composta da rappresentanti del D.A.P.( Dipartimento Amministrativo Penitenziario), Ministero del tesoro, Ministero del lavoro, Previdenza Sociale e delegazioni sindacali.
L’espressione utilizzata dal legislatore è mercede e non retribuzione, quasi a sottolineare la differenza del lavoro carcerario e a giustificarne, in un certo senso, la riduzione sul piano contributivo. Il compenso, infatti, per il detenuto “lavorante” non è coordinato alla prestazione ed è di ammontare inferiore a quello previsto per il lavoro libero.
Fare la bella significa evadere con destrezza.
La bicicletta indica un episodio inventato o modificato per mettere in cattiva luce un compagno.
Sballato è il detenuto trasferito senza la sua volontà.
Il poliziotto penitenziario è chiamato, a seconda, camoscio, carciofone, cugliana, girachiavi, mastino, pistolotto, milica, scarafaggio.
I carabinieri sono i fratelli branca perché vanno sempre in due e possono brancarti, prenderti.
Peculio il denaro del detenuto tenuto in deposito dalla direzione dell’istituto di pena.
Il loffio è un uomo da poco da tenere alla larga.
Santino è la carta di identità falsa.
La sbobba è il vitto dello Stato che passa il carcere, solitamente considerato pessimo e scarso.
Aria è consentita due volte al giorno. L’ora d’aria è un modo di dire. Può superare anche le tre ore giornaliere per i detenuti che non sono in regime di carcere duro. Per il carcere duro, invece, l’ora d’aria va sino ad un massimo di novanta minuti. E’ consentita per sgranchirsi all’aperto o giocare al pallone.
Quaquaraqua chi parla troppo e inutilmente.
Radiocarcere sta ad indicare il passaparola dei detenuti.
Principe è il direttore dell’istituto, chiamato così, perché, come i grandi nobili, non si vede mai.
Pacco è il sacchetto con effetti personali e generi alimentari portato dai familiari al colloquio. Riceverlo dà emozioni intense. È avere un po’ d’aria di casa.
Conta, viene fatta quattro volte al giorno, mattino, pomeriggio, sera e notte, per verificare la presenza in cella.
Segheria è il water della cella. Viene detto segheria perché è il luogo dove si può stare in solitudine e farsi le seghe.
Avere l’erbetta, significa avere l’ergastolo, essere al fine mai pena. Tra origine dall’abbreviativo di ergastolo, erga, appunto, poi trasformato in erba.
La lettura curiosa ed intrigante del glossario si snoda tra modi di dire singolari e cose, uomini, oggetti ed altri aspetti di vita ristretta, indicati con termini e parole dal doppio senso. Leggere I pugni nel muro, suscita pensieri e riflessioni sulla vita in carcere e, in un certo senso, avvicina e fa meglio comprendere l’umiliazione di chi trascorre una vita ristretta. I detenuti, un po’ per sopravvivere, un po’ per farsi capire, hanno scritto il glossario che si fa leggere da una parola all’altra, sbirciando qui e là parole curiose o già sentite, nuove espressioni dai diversi significati e nuovi linguaggi per comunicare. L’amministrazione carceraria, circa due anni fa, ha definito il vecchio gergo “infantileggiante”. Così la cella è chiamata “camera di pernottamento”, lo scopino addetto alle pulizie, lo stagnino idraulico e via tutti i modi dire e definire la vita di dentro a cominciare dall’istanza al direttore necessaria per chiedere ogni cosa, dalla telefonata al colloquio, dalla visita medica ad altro di cui si ha bisogno fra le mura. Ma dietro le sbarre si continua a dire, a fare e indirizzare “ la domandina”….al direttore. Poi le tante nuove e diverse parole che non cambiano le condizioni di vita dei ristretti.


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