Paolo Borsellino e i tanti misteri non chiariti. Intervista a Attilio Bolzoni

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La stagione delle stragi di mafia in Sicilia sono parte della nostra memoria condivisa. Ma per alcuni cronisti che lavoravano nella Palermo di quegli anni sono anche parte della loro storia personale. Così è per Attilio Bolzoni, giornalista di Repubblica, scrittore, documentarista che di mafia, anzi di mafie, si occupa da sempre, ora anche con un blog molto seguito.

Per motivi biografici, innanzitutto, avendo iniziato a scrivere in Sicilia, a Palermo, e proprio nei lunghi anni degli omicidi per mano di Cosa nostra. Bolzoni seguiva da vicino il lavoro del pool antimafia messo in piedi da Falcone e Borsellino, fino al maxiprocesso che mise fuori gioco intere generazioni di mafiosi di grosso calibro, ma anche dopo,quando il Csm, nel 1988, votò contro la nomina di Falcone a capo della procura del capoluogo siciliano. Proprio per la fiducia conquistata durante tanti anni di mestiere, Bolzoni, con Saverio Lodato de L’Unità, fece una storica intervista a Borsellino, che scelse due quotidiani a lui non vicini politicamente per denunciare all’opinione pubblica la manovra per smantellare la struttura che aveva reso possibile il maxiprocesso e fermare, nei fatti, le altre inchieste avviate.

Come ricostruire quegli anni?

Il 1988 e 1989 sono stati cruciali per Palermo. Dopo il voto del Csm, che nel marzo ’88 preferì Antonino Meli a Falcone, Borsellino, allora procuratore capo a Marsala, decide di parlare con noi, il 20 luglio di quell’anno, e dice cose gravi: la lotta alla mafia è finita, Falcone non ha più i suoi processi, i fascicoli sono stati smembrati e dati ad altri, e dal 1985, con le morti di Cassarà, Antiochia e Montana, la polizia non sa più nulla dei movimenti interni a Cosa Nostra, nessuno vuole indagare. Cossiga, allora capo dello stato, chiede spiegazioni, Borsellino viene convocato al Csm che lo mette sotto accusa per aver parlato con i giornali e sta per partire un provvedimento disciplinare. Allora il ministro della giustizia Vassalli manda il capo degli ispettori a Palermo, che conferma punto per punti la denuncia del magistrato. Il richiamo non parte ma le parole di Borsellino restano lettera morta.

Nell’89 arrivano poi le lettere del “Corvo” che delegittimavano Falcone, il fallito attentato dell’Addaura. Fino a quando nel marzo ‘91 Falcone va a lavorare al ministero a Roma, e Borsellino resta il suo naturale erede. Quando Falcone viene ucciso a Capaci, Borsellino nei fatti era il principale testimone da ascoltare sui fronti che li vedevano impegnati , ma in quei 57 giorni, fino alla sua morte, non fu mai ascoltato. Anzi: l’ultima volta in cui parla pubblicamente, il 25 giugno del ‘92 alla Biblioteca della Casa Professa di Palermo, Borsellino dice chiaramente: “ho cose da dire, aspetto che mi ascoltino”. Non fu mai ascoltato. Allora il procuratore capo di Caltanissetta (procura competente per le indagini su giudici di Palermo, NdR)  era Giovanni Tinebra, nominato giusto a cavallo delle due stragi.

I punti oscuri non finiscono qui. Si cita sempre la sparizione dell’agenda rossa subito dopo l’eesplosione a via d’Amelio. Ma tu ricordi anche altri elementi contraddittori?

Intanto quel 19 luglio arrivai dopo un’oretta a via d’Amelio, la zona non era recintata, c’era tanta gente ovunque, che calpestava copertoni, resti di cadavere, uno che non era poliziotto aveva in mano il paraurti di una delle auto blindate, una compromissione della zona del delitto allucinante. Fu ritrovata la borsa blindata, con oggetti personali e l’agenda dove segnava gli appuntamenti, mentre l’agenda rossa che usava per i suoi appunti riservati scomparve.

Nelle settimane precedenti erano successe altre cose, ad esempio l’ultima intervista di Borsellino, un vero mistero: il 21 maggio 1992, davanti a due giornalisti francesi, lui tirò fuori il nome dello “stalliere” di Arcore Vittorio Mangano, chiamato da dell’Utri a Milano per proteggere Berlusconi. Un vero mistero quelle dichiarazioni, perché le ultime indagini su Mangano risalivano al maxiprocesso, poi discutendo di “cavalli”. Ma Borsellino, solo due giorni prima della morte di Falcone, decise di dare quel nome a dei giornalisti, parlando di un’inchiesta in corso di cui nessuno sapeva. Perché?

Altro punto mai chiarito è quello della “trattativa” e su questo vanno ricordati vari elementi: a Palermo era arrivato il tritolo destinato a Borsellino, ma il suo capo, il procuratore Giammanco, non lo aveva avvertito. Si era pentito Gaspare Mutolo, un mafioso molto importante, e lo stesso Giammanco aveva mandato a interrogarlo un altro magistrato, furono momenti di alta tensione in procura. E poi il rapporto dei carabinieri del Ros sui grandi appalti, che evidenziava un legame diretto tra Cosa Nostra e grandi aziende del nord. C’era tanta carne al fuoco. Tutti questi punti dopo venticinque anni sono ancora oggetto di investigazioni. Si sono celebrati quattro processi di cui uno finito pochi anni fa con una clamorosa revisione: mezza dozzina di imputati si sono fatti 15 anni di galera accusati ingiustamente da un falso pentito. Questo è il punto più importante: era evidente ai più che Scarantino era falso, diversi magistrati, tra cui la Boccassini, lo scrissero pure. Ma alcuni poliziotti e schiere di magistrati di tutti i livelli, dai pm ai giudici di Cassazione, hanno creduto al pentito Scarantino. Ci sono stati confronti con capimafia di peso, come Totò Cangemi, che a verbale ha smentito che Scarantino fosse interno alla mafia. Chi era Scarantino e chi lo ha costruito da superpentito della strage di via d’Amelio e quindi sapeva che stava mentendo? Scarantino è il simbolo di un’indagine depistata fin dalle prime battute.

Cosa resta di quella stagione?

La sobrietà, il rigore, Falcone, Borsellino e gli altri magistrati del “pool” era gente che lavorava con metodo e senza ipotesi fantasiose. E tanti giudici hanno ereditato questo metodo. E’ vero che non sappiamo ancora tutto delle stragi mafiose, ma è ingeneroso dire che i magistrati non hanno indagato bene in questi anni. Ci sono state indagini che hanno smascherato il falso pentito, fatto fare passi avanti nelle investigazioni, tutti i membri della Cupola, per Capaci e via d’Amelio, sono chiusi in carcere a vita. Sono stati messi in pratica i loro insegnamenti. Questo significa che ci sono magistrati seri che sono andati a fondo. Dall’altra parte come cittadini non possiamo accontentarci della verità giudiziaria.

C’è una responsabilità del giornalismo?

Vent’anni fa come cronisti avevamo gli strumenti per smascherare Scarantino. Già allora io ne ero convinto, ma avevamo tanti fronti aperti su cui indagare. In più avrei esposto il mio giornale a un confronto durissimo con uno schieramento di investigatori, pm, magistrati inquirenti, giudici di primo grado e d’appello, giudici di cassazione: forse non abbiamo avuto sufficiente coraggio per andare fino in fondo. Questa è un’autocritica che da giornalista mi sento di fare.


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