Reato di tortura, mission impossible?

0 0

Due pesi e due misure:  rigidità e ubbidienza spesso cieca  ai dettami economici, indifferenza e  illegalità alle direttive e ai protocolli dell’Unione Europea riguardanti i diritti civili.  L’Italia rischia ad esempio  di pagare una multa di almeno 100 milioni di euro se entro maggio non eliminerà il sovraffollamento carcerario.  Ma ci sono altre  gravi inadempienze, meno citate dai mezzi di informazione contro  le quali da anni si battono numerose associazioni, oggetto di petizioni firmate da migliaia di cittadini. La  richiesta più antica e più rimandata è quella per l’introduzione nel codice penale del reato di tortura: il primo disegno di legge  fu presentato  dal senatore Nereo Battello (Pci) nel lontano 4 aprile del 1989. Erano passati due anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite che obbligava il nostro paese ad adeguare le norme interne a quelle internazionali. Tra gli altri firmatari c’erano i magistrati Ferdinando Imposimato e Pierluigi Onorato, le senatrici del Pci Giglia Tatò Tedesco ed Ersilia Salvato.  Di anni ne sono passati altri 25 e  “il vuoto normativo” non è stato colmato.  La Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti è uno strumento internazionale per la difesa dei diritti umani, approvata dall’Assemblea dell’Onu   il 10 dicembre 1984 , è entrata in vigore il 26 giugno 1987.  In tutti questi anni il parlamento italiano si è coperto  di ridicolo, una farsa quanto mai attuale. Basta citare alcune tappe. Il   28 agosto del 2000 il governo guidato da Giuliano Amato presenta una proposta governativa. Mancava un anno e mezzo allo scioglimento delle Camere. Il tempo c’era, ma non la volontà. Arriva Berlusconi al governo. Vengono presentati vari disegni di legge, tra cui quelli di Cesare Salvi, Tana De Zulueta e Gaetano Pecorella. Era il dicembre del 2004. Era iniziata la discussione alla Camera e sembrava che tutto filasse liscio, ma dai banchi diessini e dipietristi  si alzarono voci contrarie a far rientrare nella nozione di tortura anche l’inflizione di sofferenza psicologica: la tesi era che in questo modo si sarebbero ostacolate  le indagini sulle tangentopoli. Nell’aprile 2005 si consuma la beffa. La leghista Carolina Lussana ci fa coprire di ridicolo di fronte al mondo intero. Passa un suo emendamento in base al quale affinché si compia il reato di tortura sarebbe necessario torturare almeno due volte.

A quel punto la proposta di legge finisce nel cestino. Il Governo Prodi si insedia più o meno a cinque anni dalle violenze di Bolzaneto. Il famoso programma dell’Unione prevede l’introduzione del crimine di tortura nel codice. Si riparte dalla Camera. In soli sette mesi Montecitorio licenzia il testo. Pino Pisicchio, Italia dei Valori, era il presidente della Commissione Giustizia della Camera. Il testo arriva a Palazzo Madama. Passano altri sette mesi e la Commissione presieduta da Cesare Salvi approva il testo. A gennaio 2008 arriva la calendarizzazione in aula, ma anche la crisi di governo. Nelle successive legislature non andrà meglio, sempre ad un passo dall’approvazione, con testi più o meno accettabili che si alternano a richieste surreali che hanno il solo scopo di far perdere tempo, come quella secondo cui la tortura deve essere “certificata “dal vivo” davanti a testimoni. Il 22 ottobre 2013 la commissione giustizia del senato ha conclude l’esame del disegno di legge.  Amnesty International e l’associazione Antigone per altro sono fortemente critiche sul testo approvato perché “difforme dalla definizione di tortura indicata dalla Convenzione delle Nazioni Unite”. La formulazione ricorda in qualche modo quella del 2004 della parlamentare leghista Lussana: per esservi tortura devono essere commessi più atti di violenza o di minaccia, uno solo non basta. In ogni caso la previsione è fin troppo facile: anche questo Parlamento non approverà alcuna legge contro la tortura, eppure basterebbe un solo articolo, un semplice copia-incolla della Convenzione Onu.  Non ha perso tempo invece Papa Francesco che l’estate scorsa, a pochi mesi dalla sua elezione, ha cancellato l’ergastolo e ha introdotto il reato di tortura nell’ordinamento penale vaticano. La tortura è un delitto specifico compiuto da un pubblico ufficiale in Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia,  Svizzera, Turchia,  Ungheria.

E’ ancora di più  una vera e propria “mission impossibile”  la richiesta di un codice identificativo sui caschi o sulle divise delle forze dell’ordine. Qui i favorevoli sono pochissimi, Europa a parte. Un muro invalicabile che vede da sempre in prima fila i massimi dirigenti della polizia e i sindacati tutti. Anche in questo caso il Parlamento Europeo quasi un anno fa ha approvato una risoluzione nella quale testualmente “esprime preoccupazione per il ricorso a una forza sproporzionata da parte della Polizia durante eventi pubblici e manifestazioni nell’UE; invita gli Stati membri a provvedere affinché l’assunzione di responsabilità sia garantita e l’immunità non venga concessa in Europa, in particolare per i casi di uso sproporzionato della forza e di torture o trattamenti inumani o degradanti; esorta gli Stati membri a garantire che il personale di Polizia porti un numero identificativo”.  Direttive non nuove  per un’Europa Civile tanto che già il 19 settembre 2001 la Raccomandazione del Consiglio d’Europa adottata dal Comitato dei Ministri, aveva varato il codice europeo di etica per la polizia (Ceep). All’articolo 45 si legge chiaramente: “Il personale di Polizia in occasione dei suoi interventi deve normalmente essere in grado di dar conto della propria qualità di membro della Polizia e della propria identità professionale”.  Recentemente Felice Romano segretario generale del Siulp così ha motivato il suo rifiuto al codice identificativo: “ Oggi sulla scorta anche delle recenti immagini che abbiamo visto in particolare a Roma è emerso con chiarezza che vi è un gruppo di “professionisti del disordine”, o black bloc come comunemente vengono indicati, che tentano ogni volta di aggredire le Forze dell’Ordine al solo scopo di dare sfogo alla loro folle violenza calpestando quasi sempre anche le ragioni della protesta. Ecco perché oggi riteniamo che non ci siano le condizioni per una proposta che preveda  solo per le Forze dell’Ordine un codice identificativo”.  Nell’intervista a Riccardo Iacona nella puntata di Presadiretta dedicata ai Morti di Stato il vicecapo della polizia Alessandro Marangoni ha ribadito che  “se gli uomini delle forze dell’ordine dovessero essere identificati potrebbero essere oggetto di azioni dimostrative nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie”. Eppure Italia permettendo in Inghilterra  da anni i poliziotti che svolgono servizi di ordine pubblico hanno un codice identificativo, come pure in Spagna, Francia, Germania, Grecia e Svezia, e così come negli Stati Uniti ed in Canada.  Pare che anche in Vaticano le guardie svizzere si stiano adeguando.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21