Vittorio Arrigoni e il bisogno di restare umani

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Undici anni fa veniva assassinato a Gaza Vittorio Arrigoni, un ragazzo di soli trentasei anni, un pacifista a ventiquattro carati, un'”anima bella”, come lo definirebbe qualcuno oggi, in questa triste stagione di anime brutte fiere di essere tali. “Vik”, com’era soprannominato, amava il popolo palestinese e si batteva per sottrarre persone martoriate da un assedio che dura ormai da decenni allo strazio di non poter vivere. Si batteva non contro il popolo israeliano, come è stato detto da chi spesso parla per far prendere aria ai denti, ma dalla parte dei due popoli, israeliano e palestinese, in nome della pace, dell’uguaglianza e di una splendida idea di giustizia sociale che ormai, purtroppo, è venuta meno. E qui vien voglia di riflettere su questo insulto cretino che viene scagliato contro persone come lui. Perché essere un’anima bella è non solo importante ma imprescindibile. Sono ragazzi come Arrigoni, infatti, a salvare il mondo e a restituirgli una speranza, a differenza dei guerrafondai con l’elmetto in testa che giocano al conflitto con le vite degli altri, ben sapendo che, se la situazione dovesse precipitare, non sarebbero loro, e probabilmente neanche i loro figli, a subire il martirio del fronte.
Vittorio Arrigoni aveva visto con i suoi occhi la brutalità di una terra in cui non c’è pietà, eppure invitava tutte e tutti a “restare umani”, perché con la barbarie non si risolve nulla, perché la bellezza nasce dentro di noi e non può esistere se non fiorisce innanzitutto nei nostri cuori e perché difendere la causa palestinese non significa odiare qualcuno ma, al contrario, chiedere due popoli e due stati, cosa che in Occidente non fa quasi più nessuno.

Attualmente, in una riproposizione dannata di Orwell, abbiamo privato di senso le parole, manomettendole fino a storpiarle, distruggendone il significato e devastandone la preziosa importanza. Chiunque non si schieri a favore dei signori della guerra è trattato alla stregua di un idiota, di un povero illuso, di un utopista, come se, peraltro, non avessimo bisogno di utopisti e sognatori, di ingenui e di illusi, di persone che non si rassegnano al male e non accettano la dittatura delle armi. Del resto, viviamo nel Paese in cui persino l’A.N.P.I. è stata subissata di attacchi inverecondi, accuse ridicole e insulti gratuiti che avranno come unico risultato quello di stracciare gli ultimi brandelli di coscienza civica rimasti, fino a quando della nostra società non resterà più nulla, se non un individualismo pericoloso, arrogante ed egoista che confinerà ciascuno di noi in casa propria, impedendo ogni forma di convivenza.
Alla vigilia di Pasqua, mi piace pensare che Vik fosse un uomo inviato sulla Terra per prendersi cura degli ultimi, un grande missionario laico, un amico degli oppressi e una persona come ne nascono poche, il cui messaggio non è stato sufficientemente ascoltato e il cui valore non è stato capito ma la cui meraviglia interiore rimane e rimarrà sempre fra noi, specie in questi tempi orribili. Gli volevamo bene per ciò che faceva, per ciò che scriveva ma, più che mai, per ciò che era. Gliene vogliamo ancora di più adesso, perché nei giorni dell’abisso, grazie a lui, sappiamo di poter e dover restare umani, anche se è rimasto soltanto un uomo anziano vestito di bianco a ricordarcelo, mentre abbraccia la sua Croce e, con essa, tutte le croci del mondo.

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