BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Il genocidio a Gaza segna un altro record: 201 giornalisti trucidati

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Sale a 201 – secondo Gaza Media Office – il bilancio dei giornalisti assassinati dall’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, dopo

la strage di due giorni fa al campo profughi di Nuseirat, provocata da un missile che ha centrato un furgone uccidendo i reporters della TV Al-Quds Today Fadi Hassouna, Ibrahim Al-Sheikh Ali, Mohammed Al-Ladah, Faisal Abu Al-Qumran e Ayman Al-Jadi. Come se non bastasse, nella stessa giornata sono stati ammazzati altri 14 civili, tra cui tre donne e due minori. Ieri altri 12 bambini, un orrore.

Dacci oggi il nostro massacro quotidiano” potrebbe essere il motto di IDF (Israel Defense Forces, l’esercito israeliano) che non si limita a bombardare la popolazione civile – soprattutto donne e minori – ma fa strame anche di operatori sanitari, 500 i caduti a giugno, quando il totale dei palestinesi uccisi ammontava a 37.000. Adesso siamo quasi a 45.500. Sempre ieri, è stato di nuovo bombardato l’ospedale Kamal Adwan di Beit Lahiya: sono morti il pediatra Ahmad Samour, la tecnica di laboratorio Esraa Abu Zaidah, i paramedici Abdul Majid Al-Eish, Maher Al-Ajrami, e il responsabile della manutenzione. Ogni reparto è stato distrutto, i pazienti sfollati seminudi, portati via senza sapere la destinazione.

Non esistono più strutture sanitarie funzionanti a Gaza.

La CPJ (Committee to Protect Journalists) ha conteggiato “solo” 141 cronisti deceduti.

La discrepanza consiste nel fatto che Gaza Media abbia considerato anche reporter freelance non accreditati dagli organi ufficiali di stampa. Il loro sacrificio dovrebbe comunque essere riconosciuto. IDF ha ammesso la responsabilità del massacro di Al-Quds, asserendo che i 5 reporter uccisi facessero parte della Palestinian Islamic Jihad (PIJ) organizzazione che avrebbe partecipato ai massacri del 7 ottobre.

 

Prove generali di sterminio 

“La Commissione d’inchiesta ha accertato sulla base di fondati motivi che i cecchini israeliani spararono deliberatamente ai giornalisti, agli operatori sanitari, ai bambini e alle persone portatrici di handicap. Le prime due categorie sono facilmente individuabili dalle pettorine con la scritta Press e dalle barelle per trasportare i feriti, mentre bambini e persone menomate sono un bersaglio agevole per l’età e la difficoltà di movimento”

Non siamo ancora a Gaza, bensì nel 2019, alla conclusione dell’inchiesta indipendente ONU, che accertò senza ragionevole dubbio che i soldati di Israele spararono ad altezza d’uomo – mirando a bersagli ben precisi – causando i massacri durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno, che coinvolse 30.000 palestinesi di tutte le età, accompagnati da reporter e personale medico, a partire dal 30 marzo 2018.  Quel giorno i cecchini uccisero 20 persone – tra cui la paramedica Razan al-Najjar, colpita mentre assisteva i feriti – e ne ferirono 1600. In quelli successivi il giovane reporter Yaser Murtaja che stava intervistando la gente, venne a sua volta ammazzato. A fine anno, solo durante tali manifestazioni, il bilancio fu di 190 civili uccisi – tra cui 35 bambini – tre paramedici e due giornalisti. 

Nessun paese agirebbe con maggior moderazione di Israele”, dichiarò Nikki Haley, ambasciatrice USA all’ONU.

Una macabra anticipazione dello sterminio di Gaza e delle stragi contemporanee in Cisgiordania e Libano.

Malak Azrid, cronista di Al Jazeera stava parlando al telefono con la moglie quando un drone colpì la sua auto che esponeva i contrassegni di stampa, facendolo a pezzi insieme al suo cameraman, Rami Alrifi.

Quando Shireen Abu Akleh, nota giornalista di Al Jazeera fu uccisa a Jenin due anni fa, l’inchiesta successiva pubblicata dalla Associated Press, accertò che la reporter non fu colpita nel mezzo di una battaglia, bensì mentre svolgeva compiti di routine. Un video della CNN  dimostrò poi che era stata un’esecuzione a freddo: il cecchino mirò a lei deliberatamente. L’inchiesta concluse che Shireen fu trafitta da un proiettile sparato da un Ruger M40, carabina di precisione made in USA. 

IDF fu così smentita, dopo aver sostenuto che la reporter fosse rimasta vittima del fuoco incrociato.

Ismail al-Ghoul e Anas Al-Sharif, sempre di Al Jazeera, furono uccisi nelle loro case, essendo nel mirino del Mossad da tempo. Ebhrahim Mohareb fu ammazzato a Khan Younis durante un incursione israeliana, mentre Hamza Mortaji ci lasciò la pelle durante un raid in una scuola che ospitava profughi. Circa 100 palestinesi furono massacrati in quella circostanza.

“Gaza è attualmente il posto più pericoloso al mondo per i corrispondenti di guerra” ha dichiarato Tahseen Al-Astal, vice direttore del Palestinian Journalists Syndicate.

Secondo la CPJ, Israele ha una lunga storia di uccisioni mirate nei confronti di giornalisti. Già prima del 7 ottobre, 20 corrispondenti furono fatti fuori dai cecchini della IDF, e subito dopo in Libano la stessa sorte toccò a Issam Abdullah, reporter della Reuters. L’obiettivo palese sembra quello di tacitare l’informazione nelle zone dove imperversa la repressione di Netanyahu. Indossare un giubbotto antiproiettile con la dicitura Press, se prima poteva essere la salvezza per un cronista, oggi al contrario significa spianare la strada ai cecchini o ai droni per un bersaglio facile. A nulla può un giubbotto contro una bomba trasportata da un drone, mentre un proiettile dirompente mirato alla testa perfora un elmetto con facilità.

https://youtu.be/JnGTzx4N6z4?si=NIAxt_tblq9Si16c

 

Rapporto MSF 

Se possono sussistere dubbi sulle testimonianze dei gazawi, o persino su quelle dei funzionari ONU presenti, tuttavia a fugare gli stessi contribuiscono i racconti degli operatori di Medici Senza Frontiere, che hanno assistito alla quasi totale distruzione del sistema sanitario a Gaza attraverso il bombardamento a tappeto degli ospedali e gli assassinii mirati del personale sanitario, tra cui otto medici arabi dell’associazione,

Il loro ultimo rapporto, che coincide con le voci dei pochi media sopravvissuti all’interno della Striscia, espone senza remore le atrocità compiute da un esercito invasore che, con il pretesto della vendetta per gli orrori di Hamas del 7 ottobre, tenta la soluzione finale: la pulizia etnica di un popolo a cui, dopo la distruzione pressoché totale della proprie case, viene negato l’accesso alle cure e ai servizi essenziali quali elettricità e acqua potabile, con limitazioni sempre più stringenti sull’entrata degli aiuti umanitari. Condizioni che hanno aumentato i decessi per carenza di beni alimentari e il proliferare di malattie come il ritorno della poliomielite, la cui vaccinazione non è stata completata.

Ieri 4 neonati sono morti per il freddo, ci sono solo tende, la notte si gela. 

La Striscia è ormai una trappola mortale, da cui non è consentito uscire né entrare a tempo opportuno.

 

Censura e social 

In questi due anni, un conformismo imbarazzante ha contraddistinto le azioni del governo italiano e di molti altri europei, perfettamente allineati all’amministrazione Biden e alle posizioni del partito di estrema destra Likud, fondato da Ariel Sharon, altro notorio “falco” della storia di Israele: i media che hanno osato opporsi allo status quo che nega lo sterminio di Gaza, sostenendo la tesi di uno Stato palestinese libero dall’occupazione israeliana, sono stati sistematicamente bollati di antisemitismo. La stessa sorte è toccata alle manifestazioni di protesta pro Palestina, con particolare accanimento nei confronti di molti studenti che sono stati picchiati e quindi sospesi. L’Occidente pensa così di lavarsi la coscienza provando a cancellare il ricordo indelebile dell’Olocausto. In realtà fa il gioco di un regime che sembra ricalcare, nei metodi e nella ferocia, le atrocità storiche subite dal suo popolo. 

E forse non è un caso che il governo tedesco sia il più determinato nell’adottare questa condotta discriminante nei confronti dei manifestanti, con punte di violenza spesso sproporzionate.

Chiudendo con la censura, in un’epoca come la nostra dove la comunicazione è soprattutto legata ai social network che hanno surclassato la televisione, non poteva mancare l’intervento del colosso Meta Platforms, che accorpa dal 2021 sia Facebook che Instagram. Seondo un’inchiesta di BBC News Arabic, le restrizioni che la nuova azienda di Zuckerberg ha applicato nei confronti delle agenzie di stampa palestinesi, attraverso “moderazioni” dei toni sui post dei cronisti affidati ai social più popolari del pianeta, hanno causato – dopo il 7 ottobre e l’invasione israeliana – un crollo verticale delle interazioni del pubblico con i media, calcolato intorno al 77%. Ad esempio, Palestine TV che ha quasi 6 milioni di followers, ha perso il 60% degli abituali scambi con i lettori che commentano i post del network.

Tutto il contrario di quello che ci si aspetterebbe in tempi di guerra.

© Flavio Bacchetta 

  1. Riporto uno stralcio delle osservazioni del Prof Alessandro Orsini pubblicate da il Fatto Quotidiano. “Il 26 gennaio 2023, quando la Corte internazionale di giustizia dell’Onu avviò il processo per genocidio contro Israele, Meloni si schierò dalla parte di Netanyahu, votando contro le indagini del tribunale sui crimini israeliani a Gaza. 

Il 28 ottobre 2023, Giorgia Meloni si astenne sulla proposta di una tregua umanitaria per interrompere lo sterminio dei palestinesi. 

In quell’occasione, Meloni dichiarò, per bocca dell’ambasciatore: “Saremo sempre solidali con Israele”. 

Il 19 maggio 2024, quando il procuratore capo della Corte penale internazionale – Karim Khan – chiese un mandato d’arresto contro Netanyahu, Meloni definì la richiesta “del tutto inaccettabile” attraverso Tajani.

Il 21 novembre 2024, quando la Corte penale internazionale spiccò il mandato di cattura contro Netanyahu, Meloni dichiarò che tale documento “è un atto politico di un gruppo di giudici per attaccare il primo ministro israeliano”.

“Incurante dei massacri, Meloni autorizzò la consegna a Netanyahu delle seguenti armi: bombe, granate, siluri, mine, missili, munizioni per un valore di € 730.870 a dicembre 2023, elevato a € 1.352.675 nel gennaio 2024. Il 19 settembre 2024, Meloni rifiutò di votare in favore di una risoluzione Onu che chiedeva a Israele di porre fine all’occupazione dei territori palestinesi. L’11 ottobre 2024, nell’ultimo MeD9 a Cipro, Meloni impedì l’inserimento di una clausola contro la vendita di armi a Israele – richiesta da Macron e Sanchez – nella nota con cui Francia, Italia e Spagna condannarono l’attacco israeliano contro Unifil.

Il 15 ottobre 2024 alla Camera, Meloni dichiarò di continuare a sostenere Israele, ai fini di rispettare i contratti di fornitura militare autorizzati prima del 7 ottobre 2023.”

“Il 20 dicembre 2024, un bombardamento ha dilaniato 12 membri di una famiglia a Jabalia, tra cui 7 bambini, a nord di Gaza. 

Due giorni dopo, il 22 dicembre, Meloni ha inviato Crosetto a Tel Aviv per incontrare il ministro della Difesa responsabile della strage, Israel Katz, e assicurargli l’appoggio dell’Italia. 

Meloni avrebbe potuto annullare l’incontro per protesta contro quell’eccidio, ma non l’ha fatto….”

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2024/12/24/bombe-su-gazadal-7-ottobre-ce-una-vera-meloni-contro-la-finta/7815772/


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