“Per amore del mio cinema non tacerò”

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Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Michele Diomà, producer e filmmaker, autore di “Sweet Democracy”  film sul tema della libertà di stampa

di Michele Diomà

La parola “censura” evoca apparentemente qualcosa di lontano da noi, sia sul piano geografico che cronologico, sembra essere una parola d’altri tempi per un paese come l’Italia, eppure senza volerlo mi sono ritrovato a doverla utilizzare in quanto necessaria al fine di descrivere ciò che è accaduto ad un film e non nell’America maccartista, ma oggi in Italia.

In sintesi: nel 2015 in collaborazione con il produttore Donald Ranvaud, persona con alle spalle una carriera internazionale e 4 nominations agli Oscar per “City of God”, riesco a realizzare un film sul tema della libertà di stampa, nello specifico raccontando tutte quelle pressioni che subiscono i giornalisti da parte di editori collegati a gruppi di potere politici.

L’ idea rivelatasi vincente, era quella di fare un film di satira. Sin da principio pensai di coinvolgere in “Sweet Democracy” una grande personalità della cultura che nella sua vita avesse subito molte censure, un’idea che mi fece subito pensare a Dario Fo, anche se sapevo che non sarebbe stato facile, la domanda che rivolsi a me stesso fu:”Ma per quale ragione un drammaturgo premio Nobel dovrebbe accettare di partecipare al film di un regista pressoché esordiente?”.

Invece il Maestro Fo accettò e con grande generosità mi accolse nel suo atelier di Milano, a mio avviso confermando “con i fatti” la ragione anche civica del suo premio Nobel, ovvero il riscatto degli ultimi, perché i giovani in Italia sono “gli ultimi”.

Il film, come promisi a Dario Fo, lo presentai in un’anteprima test a Taranto, a pochi passi dall’Ilva in un’affollatissima proiezione estiva, volevamo dare un messaggio politico ben preciso portando il cinema lontano dal “red carpet”, dove in realtà come Venezia sembra essere sempre più imbavagliato dall’industria.

Dopo quella proiezione il film non si è più fermato, è diventato un vero e proprio caso cinematografico, tutta la stampa mainstream ne iniziò a parlare con interesse e dopo vari Festival che lo selezionarono approdò a New York.

Il film negli Stati Uniti mi permise anche di entrare in contatto con James Ivory, premio Oscar e leggenda del cinema americano, al quale feci vedere “Sweet Democracy” ed accettò di partecipare al mio nuovo progetto, che poi ho diretto lo scorso anno.

Sembrerebbe una bella storia per un piccolo film indipendente realizzato senza soldi pubblici, risultati simili si ottengono raramente con un prodotto cinematografico italiano anche con alle spalle una major, ed invece tutto ciò non è bastato per convincere i vari funzionari RAI che “Sweet Democracy” è un film che il pubblico italiano ha il diritto di vedere, non solo perché è l’ultimo progetto al quale ha partecipato Dario Fo, ma per i risultati internazionali ottenuti.

Oggi a distanza di quasi 4 anni dalla prima proiezione il film resta “messo sotto al tappeto della RAI” nonostante le interrogazioni in commissione parlamentare di Vigilanza RAI ed i tanti appelli a mostrare il film in prima serata.

Un percorso che ha diversi punti in comune con “La trattativa” di Sabina Guzzanti, che soltanto dopo anni dalla sua realizzazione è stato mandato in onda su RAI 2.

Può darsi io abbia realizzato un brutto film, ma perché non mostrarlo al pubblico che paga il canone?

Ho ricevuto diverse offerte da varie piattaforme che mi hanno chiesto di vendergli i diritti di trasmissione di “Sweet Democracy”, ho sempre rifiutato, l’ho fatto per una ragione di difesa della nostra identità culturale, l’Italia ha un servizio televisivo pubblico pagato da tutti gli italiani e non può essere considerato sulla libertà di stampa e di espressione al pari dei mass media della Turchia o di altri regimi.

Per amore del mio cinema non tacerò e se sarà necessario prenderò seriamente in considerazione la possibilità di iniziare uno sciopero della fame per denunciare quanto accaduto al film in rapporto con la RAI. Non è una madalità di protesta civile che condivido, perché ritengo la vita un dono prezioso, ma se dovrò farlo lo farò.


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