Chi e perché sabota pace e legalità in Colombia

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La pace (è noto, ma vale rammentarlo) favorisce gli interessi materiali della stragrande maggioranza d’una popolazione, ma non di tutta in assoluto. Cosi come la guerra danneggia quelli generali, avvantaggiandone però alcuni particolari. Si capisce dunque che ci siano individui e gruppi spesso poderosi che respingono una pace e una legalità aperte allo sviluppo democratico del paese. In quanto (è noto, ma vale rammentarlo) queste intervengono nella nuova redistribuzione delle ricchezze. Il ben noto aforismo di Carl von Clausewitz va qui capovolto: la pace può divenire la continuazione della guerra con altri mezzi (talvolta non completamente dissimili).

E’ in questa logica che quella tra il governo colombiano e la guerriglia delle Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC), la maggiore e più longeva d’America Latina, ottenuta 2 anni fa anche grazie a una convinta collaborazione internazionale, fatica a consolidarsi. Per riuscirvi, deve rimuovere i danni d’un secolo d’ingiustizie, terrore e morte. Cent’anni ingombrati dalla cupidigia dei prepotenti e dalle lagrime della massa degli oltraggiati: sette generazioni di colombiani (calcolerebbe Gabriel Garcia Marquez nell’aritmetica dei suoi Cent’anni di Solitudine) impediti a vivere varietà e ricchezza delle loro possibili storie personali e nazionali, risucchiate tutte in un’unica storia di violenza che ha travolto il paese.

Con la firma degli accordi dell’Avana, questa storia è stata creduta conclusa. Dichiarata la soddisfazione di entrambe le parti, il governo del presidente Santos e le FARC; e dell’ONU, del Vaticano, della Norvegia, dell’Italia con la Comunità di Sant’Egidio e di tutti quanti hanno portato il loro ramoscello d’ulivo a una pace troppo a lungo apparsa chimerica. Nondimeno contro ogni precedente sondaggio d’opinione e con diffuso sgomento, nella consultazione prevista dagli accordi la maggioranza dei colombiani ha bocciato la pace. Nel sentimento popolare espresso, la disponibilità al reciproco perdono, che passa inevitabilmente attraverso il compromesso, è apparsa sopraffatta da una richiesta di giustizia fondata più su canoni convenzionali che nella eccezionale sebbene prolungata e contraddittoria dinamica storica dei fatti.

Dopo mezzo secolo, pochi ricordano che la ribellione armata scaturì dall’ennesimo assassinio di un dirigente popolare di grande prestigio (che tra l’altro aveva studiato nell’Italia fascista e apprezzato il diritto corporativo: un populista, si direbbe oggi; Eliecer Gaitan era semplicemente un uomo del suo tempo e della sua terra); e che ai vari accordi di disarmo intervenuti nei decenni trascorsi sono puntualmente seguiti altrettanti eccidi di guerriglieri tornati a fare i contadini e ormai inermi. Più recente e diffusa la memoria della contaminazione della guerriglia politica con il banditismo, il narcotraffico e il sabotaggio spesso indiscriminato che ha sfociato nel terrorismo. Ma due verità storiche contemporanee tanto consolidate non si elidono, si sommano. Per ricondurle a una comune convivenza nelle istituzioni democratiche è inevitabile la parentesi dello spirito pragmatico e dell’ indulgenza

E’ un fatto che la riforma agraria predicata settant’anni fa da Gaitan e dal suo partito liberal-popolare, poi fatta propria da vari gruppi riformatori e dalle FARC e perennemente elusa, resta una questione fondamentale tutt’ora all’ordine del giorno. Nel suo ambito, gli accordi dell’Avana prevedono che i 4 milioni e mezzo di agricoltori costretti a abbandonare case, terreni e bestiame a causa della guerra, rientrino ai luoghi di residenza e ottengano la restituzione delle loro proprietà. Ma nella quasi totalità dei casi queste proprietà sono state nel frattempo incorporate dai latifondisti rispettivamente più prossimi, gli unici in grado di difenderle con il permanente intervento delle bande paramilitari ai loro ordini.

Negli ultimi mesi, però, il riordino del catasto agricolo nazionale richiesto dal processo di pace, ha indotto la Procura Generale della Repubblica e l’Ufficio delle Imposte colombiani a indagare su una cospicua serie di proprietà le cui origini non risultano chiaramente documentate. Tra queste, sospettate di appropriazione indebita, la villa “El Uberrimo”, nella provincia di Cordoba, circondata da 103 ettari non tutti coltivati, in cui risiede molto frequentemente l’ex presidente della Colombia Alvaro Uribe, ultra-conservatore, nemico dichiarato e acerrimo dell’accordo tra lo stato e la guerriglia. Coincidenza quanto meno sospetta. L’inchiesta coinvolge inoltre il ministro dell’Agricoltura, Aurelio Irragorri, e il suo predecessore, Ruben Lizarralde, oltre ad altri grandi proprietari terrieri e allevatori di bovini in maggioranza seguaci del partito di Uribe, il denominato Centro Democratico.

Accelera in parallelo lo stillicidio degli assassini politici mirati.  La Defensoria del Pueblo, dipendente dal ministero della Giustizia, ha reso noto che dal giugno 2016 al mese scorso sono stati uccisi 282 esponenti sociali, cioè sindacalisti, difensori dei diritti umani, funzionari di ONG varie. Di tutti costoro, 156 hanno perduto la vita negli ultimi 12 mesi, quando ormai le FARC avevano smobilitato e consegnato le armi. Almeno 11 di questi omicidi vengono attribuiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ad agenti di polizia o militari dell’esercito nella repressione di scioperi. Gli altri sono stati compiuti da residui gruppi guerriglieri, bande di narcotrafficanti e delinquenza comune, molto attivi nei territori di 325 municipi concentrati al confine nord-orientale con il Venezuela e di un altro centinaio al confine meridionale con l’Equador, ancora scarsamente controllati dal governo centrale.

Questo è il clima in cui 36 milioni e mezzo di colombiani hanno votato il mese scorso per il rinnovo del Parlamento e torneranno alle urne il prossimo 27 maggio per eleggere il presidente della Repubblica, che in Colombia è anche il capo del governo. Sebbene turbolento, dominato nelle vastissime campagne dell’interno dal voto clientelare e non di rado da situazioni medievali, è nondimeno il clima migliore degli ultimi decenni. Nel frammentatissimo panorama partitico colombiano, caratterizzato dal caudillismo, la recentissima vittoria ottenuta dai conservatori tanto alla Camera quanto al Senato non garantisce l’elezione di un loro candidato a capo dello Stato. A decidere sarà il gioco delle alleanze, in cui l’ex sindaco di Bogotà, Gustavo Petro, espressione del riformismo prevalente nelle città, compete con il favorito Iván Duque, sostenuto da Uribe e dal fronte delle destre.


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