Caso Alpi-Hrovatin. Si possono archiviare 24 anni di indagini senza essere arrivati alla verita? Per noi no

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Si possono archiviare 24 anni di indagini, inchieste, commissioni parlamentari, senza essere arrivati alla verità? Senza sapere chi ha ucciso Ilaria e Miran? Senza conoscere chi ha ordinato quell’esecuzione? Per noi, no.

Eppure, oggi, un giudice dovrà decidere.

Di certo non potrà ignorare la sentenza della Corte d’Appello di Perugia. Sentenza che, nel processo di revisione, ha assolto Hashi Omar Hassan per non aver commesso gli omicidi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Sentenza che ha messo nero su bianco la parola “depistaggio”.

Ed è proprio questo il motivo per cui non si può, non si deve archiviare, oggi. Perché dei giudici hanno scritto che ci sono stati dei depistaggi. E su quei depistaggi bisogna indagare.

Eppure, sei mesi dopo questa sentenza, la Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione: impossibile risalire al movente e agli autori degli omicidi di Ilaria e Miran, nessuna prova di presunti depistaggi, si legge nelle 80 pagine firmate dal pm Elisabetta Ceniccola, titolare del fascicolo.

Intanto la Corte d’appello di Perugia ha stabilito un risarcimento di 3 milioni 180 mila euro per l’errore giudiziario e l’ingiusta detenzione Hashi Omar Hassan. Per i suoi 6363 giorni di carcere, più di 3000 passati in isolamento diurno. Per essere stato dimenticato, sottratto alla sua vita. Una pena che gli poteva essere risparmiata… se qualcuno non avesse permesso la fuga del testimone chiave, Ahmed Ali Rage detto Gelle… O se qualcuno fosse andato a cercarlo, visto che era un autista di mezzi pubblici a Birmingham e non un latitante in Afghanistan… O se – semplicemente – qualcuno avesse guardato le immagini dell’agguato… Gelle – che con la sua inchioda Hashi – quando viene sentito dall’allora pm Franco Ionta e dagli uomini della Digos si sbaglia nel descrivere la scena dell’agguato… dice che Ilaria è seduta sul sedile anteriore e Miran su quello posteriore… Ma come? Ma non era lì? Non ha visto tutto? Perché nessuno – né il pm né gli uomini della Digos – gli contesta questo racconto?

E poi, dopo aver deposto, Gelle sparisce da Roma. Proprio pochi giorni prima dell’arrivo nella capitale di Hashi. Va via uno – il super testimone – arriva l’altro, Hashi. Hashi dalla Somalia viene in Italia per testimoniare davanti a una commissione di inchiesta – la commissione Gallo – su presunte torture inflitte dal nostro esercito a cittadini somali, anche a lui. Bene il ragazzo, nel giro di 24 ore, passa da vittima dell’esercito italiano a carnefice di due colleghi, accusato dell’omicidio di Ilaria e Miran. Arrestato e chiuso in carcere. È il 12 gennaio 1998, il primo giorno di ingiusta detenzione… In prigione ci rimarrà per 554 giorni, fino all’assoluzione di primo grado.

La Procura di Roma decide però di fare ricorso. Nonostante Gelle, il teste chiave, non si sia presentato al processo di primo grado – si decide comunque di ricorrere in appello. Hashi, certo della sua innocenza, rimane in Italia… non scappa… non torna in Somalia dove difficilmente qualcuno l’avrebbe trovato…

Il processo di secondo grado dura un mese… ribalta il giudizio di primo grado e viene confermato in Cassazione. Hashi viene condannato a 26 anni di carcere per un reato che non ha commesso.

E’ la mamma di Ilaria – Luciana – la prima a non credere nella colpevolezza dell’uomo. “Nessuna rapina” racconta “mia figlia è stata giustiziata perché lavorava su un’inchiesta scottante… in carcere c’è un innocente”.

Eppure passano gli anni. E quell’innocente in carcere ci rimane mentre nessuno va a cercare. Fino a quando, tre anni fa, a cercarlo ci siamo andati noi di Chi l’ha visto. E l’abbiamo trovato.

Quel che Gelle ha raccontato ai nostri microfoni è ormai noto. Lui non era lì quando hanno ucciso Ilaria e Miran. Non ha visto nulla. Ha detto solo bugie. Il nome di Hashi l’ha fatto perché voleva scappare dalla Somalia. “Io sono stato un mezzo per costruire questa bugia. Serviva per tranquillizzare i famigliari di Ilaria, per farli stare calmi”
Gli italiani – ci racconta – avevano fretta di chiudere la faccenda.

Gelle non si sottrae a nessuna domanda… ha una gran voglia di parlare.

È il 18 febbraio 2015 quando va in onda la nostra intervista.

Subito abbiamo fornito alla procura di Roma ogni elemento per rintracciare l’uomo – numero di telefono, targa, indirizzo di casa – eppure ci vogliono ancora 1 anno, 1 mese, 15 giorni per la rogatoria internazionale. Rogatoria che arriva quando già il processo di revisione è in corso da due mesi – a Perugia. Gli avvocati di Hashi hanno potuto richiedere la revisione della sentenza che aveva condannato il ragazzo somalo a 26 anni di carcere – grazie alla nostra intervista.

E’ il 19 ottobre 2016 quando Hashi viene definitivamente assolto. È la fine della sua pena. Si chiude – così – una pagina vergognosa per la giustizia italiana.

Ora – che quello sia un depistaggio è chiaro. Lo mette nero su bianco anche la Corte di Perugia. Ma perché non è stato altrettanto evidente per la Procura di Roma? C’era una testimonianza dubbia, tre persone dicevano che Hashi – quel giorno – non era a Mogadiscio. Più di un testimone aveva confermato che Gelle non era sul luogo dell’agguato, ma all’ambasciata americana. Ma no, c’era una foto scattata pochi minuti dopo l’omicidio nostri colleghi. E Gelle era lì. Lui si era riconosciuto. Su quella foto erano state fatte le perizie antropometriche dalla procura di Roma… un fascicolo intero… Peccato non fosse Gelle, ma un signore che si chiama Ossobow. E Ossobow – nel 2005 – viene sentito dalla commissione parlamentare di inchiesta. Dice “quello in foto sono io”. Ma le sue parole rimangono lì. Nessuno va a cercare Gelle. Nessuno dà il beneficio del dubbio ad Hashi. Lo lasciano in carcere… tanto – qualcuno avrà pensato – la vita di un ragazzo somalo vale poco…

Ha passato 17 anni, 8 mesi, 5 giorni in carcere – ingiustamente – per un depistaggio.

E se per Hashi – ora – giustizia è fatta, non possiamo dire lo stesso per Ilaria e Miran… nessun colpevole, per loro… nessun mandante… solo tante bugie e depistaggi.

Per questo, oggi, non si può archiviare. Perché c’è una sentenza. E da quella sentenza bisogna ripartire.


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