Franco Guarino 40 anni fa scalò l’Everest. E piazzò la bandierina di Taranto

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Era il 19 gennaio del 1978 e un tarantino, un esploratore reporter, un curioso del mondo raggiungeva la vetta dell’Everest. In solitaria. Un’impresa. Lui è Franco Guarino, uno che il mondo ha voluto scoprirlo per se ma anche per raccontarlo attraverso le immagini che, nel tempo, hanno fatto parte di reportage della Rai ma anche in progetti dell’ONU. Con lo sguardo fuori dagli schemi per far capire quanto la visione del mondo non può essere unica. Ecco il suo racconto.

Quaranta anni fa la mia scalata, invernale, in solitaria, dell’Everest. Con la consapevolezza che nessuno, in caso di bisogno, poteva salvarmi. In caso di incidente. Sono nato a Taranto, nella città dei due mari, in via Icco. La storia di Icco, Ikkos per esser più precisi, medico e atleta, grande personaggio tarantino mi incuriosì molto. A scuola imparai che egli, tra l’altro, da grande atleta fu vincitore in Grecia delle gare di pentathlon nella 77ª Olimpiade (472 a.C.). Per questo gli venne dedicato un monumento a Olimpia, nel tempio di Era. Icco fu anche il fondatore della ginnastica medica e della dieta atletica, e per primo intuì la grande influenza della ginnastica sulla salute. Cosi pensai di fare una grande tarantina.
Nel mondo alpinistico l’inizio del mese di maggio è considerato uno dei due periodi migliori per tentare scalate himalayane. L’altro periodo corrisponde al nostro Natale. Stavo benissimo, l’equilibrio psicofisico che negli anni avevo costruito me lo permetteva. Iniziai, il 27 dicembre del 1977, l’avventura dal campo base a 5.500 metri, sul ghacciaio himalaiano del Kumbu. Sapevo che l’Himalaya inizia dove le Alpi finiscono. In Valle d’Aosta, parlando con altri alpinisti mi resi conto che la parte più difficile dell’Everest non era quella dell’arrivo in vetta ai suoi maestosi 8.848 metri, ma passare le cascate di ghiaccio, le famose Ice Falls, tra i 6.000 e i 7.000 metri, situate prima degli ottomila metri del colle Sud, da dove parte l’ultimo tratto che porta sulla vetta. Ricordo che il 7 maggio 1978 Reinhold Messner e Peter Habeler scalarono l’Everest senza ausilio di bombole di ossigeno, cosa fino a quel momento ritenuta abbastanza impossibile per l’uomo: erano in due, mentre io ero solo. Messner ci riprovò nel 1980, salendo di nuovo sulla vetta dell’Everest, stavolta da solo e senza aiuto di ossigeno.

Vi racconto, e in pochissimi lo sanno, del mio “piccolo record” sull’Everest, realizzato il 19 gennaio 1978 sulle cascate di ghiaccio, il punto (a mio avviso) più pericoloso del mondo. Per correttezza devo quindi spiegare questo record. Fino al gennaio ‘78 nessuno aveva raggiunto il Colle Sud in “invernale” da solo e senza l’ausilio dell’ossigeno. Di conseguenza la mia scalata fu la prima in quelle condizioni, una soddisfazione che non ho mai enfatizzato, ma che rimane pur sempre un vero record. Durante la scalata difficile, ho lottato costantemente, con i centri respiratori depressi, il fiato corto e accelerato con conseguente mal di testa. La poca anidride carbonica presente nell’aria non era sufficiente a stimolare i centri respiratori. Non ho preso medicine per evitare effetti collaterali sconosciuti… prendevo aspirine con la grappa che non congela. I viveri da alta quota li avevo selezionati con cura. Una parte regalo di una spedizione coreana appena scesa dalla vetta. Loro, tra l’altro, avevano lasciato alcune scalette sui crepacci. Quattro portatori di alta quota scerpa, mi hanno seguito fino a 6.000 metri, poi si sono accampati e mi hanno atteso per una settimana, scattando qualche foto e girando un breve video. Il 19 gennaio gennaio mi trovavo al Colle sud intorno agli 8.100 metri, all’alba incomiciai a salire con la nebbia che mi impediva di vedere la vetta. A mezzogiorno finalmente fini il calvario, arrivai in vetta, 55 gradi sotto zero e forte vento, sistemai le bandierine e ripresi la discesa. Procedevo molto lentamente, spesso mi fermavo a riposare immerso in un caos di ghiaccio in movimento, un continuo pericolo causato anche dai grandi sbalzi di temperatura esterna e interna dei blocchi di ghiaccio perenne. L’umore era buono, ero aggressivo quanto bastava. Sono 14 nel mondo le montagne più alte di 8.000 metri, rischiose da scalare, sia per le difficoltà tecniche sia per l’elevata altitudine. Comunemente la quota altimetrica al di sopra degli ottomila metri è nota agli alpinisti come la zona della morte a causa del freddo intenso, del forte vento e dell’estrema rarefazione dell’aria.
Le scalate in solitaria non prevedono le bombole a causa del peso. E’ noto che da soli non conviene superare i 12 kg tutto compreso, preso da ben altri problemi, ho solo riportato qualche immagine a ricordo personale. E’ risaputo che nella civiltà delle immagini e del dubbio ad ogni costo, se non ci sono le immagini “non ci sei stato in un certo posto”. Per fortuna ieri come ora non considero questo un problema, ma un problema degli altri. L’ascesa di un ottomila richiede un’accurata preparazione psico-fisica e attenzione ai pericoli dell’ipotermia e del congelamento, oltre, ovviamente, a quelli dovuti agli aspetti morfologici dell’alta montagna (valanghe, crepacci, dirupi, frane…). Se un individuo vive al livello del mare e in poco tempo venisse “depositato” sulla vetta dell’Everest, morirebbe d’ipossia in breve tempo, poiché il cervello non può vivere senza ossigeno per più di tre minuti. L’effetto della bassa pressione viene avvertito dal cuore, dai reni e nella respirazione. I pionieri dell’Himalaya utilizzavano l’ossigeno a partire dai 7.000 metri. L’acclimatamento è una messa in opera complessa dell’organismo che permette all’uomo di sopperire alle carenze di ossigeno causate dalla differenza di pressione e a tutte le difficoltà ad esse connesse. Una mutazione che tocca anche la psiche in quanto l’alta quota è veramente un mondo a parte. Acclimatarsi e abituarsi all’altitudine deve essere fatto in modo naturale. Nel giro di poche ore (più o meno 6), a 3.000 metri l’organismo “fabbrica” molti più globuli rossi, i veicoli dell’ossigeno. Allo stesso tempo il cuore e i polmoni trovano un altro ritmo: i battiti aumentano di intensità e la respirazione pure. Sopraggiungono modifiche al sistema ormonale e cambiamenti sul piano dei tessuti muscolari e adiposi. Più complesso è l’edema celebrale: mal di testa, vomito, insonnia, allucinazioni, delirio e coma sono comunque, in successione, passi che possono condurre in breve alla morte. In altitudine, si perdono numerosi neuroni. Cosa si prova è difficile da spiegare, tra le altre cose, trascorrevo le notti in passeggiate immaginarie, anche a dialogare con persone invisibili. Tutto ciò legato a “posizione a uovo” per non essere portato via dal vento forte.
Per questo scalavo solo due ore al giorno tra blocchi enormi del ghiaccio in movimento, una specie di roulette russa sul confine tibetano. Nel caos di ghiaccio si perdono il senso delle distanze e del tempo. Il mondo dell’alta quota è il mondo delle sorprese, dell’incertezza. Come se si entrasse in altri spazi, in altri tempi, in altre persone. Un mondo a parte non per tutti. Questo universo di nuove percezioni è chiamato “la zona della morte”. Si viene proiettati in una sconosciuta dimensione per i sensi e per l’intelligenza. Sapevo che in caso di bisogno nessuno mi avrebbe salvato, anche se ero sicuro di ritornare.

Cosa rimane oggi di tutto ciò? La soddisfazione di aver portato tra i ghiacci eterni le bandiere, italiana e nepalese, il gagliardetto di Taranto. L’essere tornato cambiato, maturo, modesto e semplice per continuare a vivere tutti i giorni e coivivere con il fisico ammalato. Rimane anche nella trasparenza intellettuale, mantenere dignità, lealtà, rispetto del prossimo e della natura. Devo molto all’assistenza delle letture di Charles Darwin con “L’origine della specie”. L’Everest è stato un regalo che mi sono fatto da solo in un importante palestra di vita, una lezione molto intima che conservo vivendo nella mia terra piatta in riva al mare. La scalata all’Everest per me è stata anche un opera d’arte che mi sono voluto permettere con tanta modestia.

*Fonte:  Corriere Taranto


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