Lo conobbi nel 1951 che era un giovanotto allegro e geniale, studioso di Tommaso D’Aquino e teologia scolastica, con una vivacità intellettuale perfino maggiore di quella che tutto il mondo in seguito imparerà a conoscere. Ma a me resterà impressa per sempre la sua straordinaria bravura nel raccontare barzellette, facendo sganasciare dal ridere centinaia di quindicenni come me, riuniti quel giorno in un teatrino di Lodi per un convegno nazionale della GIAC (gioventù italiana di Azione Cattolica). Già perché Umberto Eco faceva parte allora della gruppo dirigente presieduto da Mario Rossi, che tre anni dopo venne costretto alle dimissioni in blocco dal presidente nazionale dell’Azione Cattolica Luigi Gedda. E tante dimissioni piovvero altrove, le mie comprese dall’incarico di vice delegato diocesano studenti nell’azione cattolica fiorentina.
Erano gli anni in cui cominciavano a farsi largo tra i militanti le idee del cattolicesimo d’oltralpe, dall’”Umanesimo integrale” di Jacques Maritain alla “Rivoluzione personalista e comunitaria” di Emmanuel Mounier, le pagine di teologi come Danielou e De Lubac o di scrittori e romanzieri come Bernanos e Mauriac. Erano, quelli, i primi semi del rinnovamento ecclesiale che prenderà forma con il pontificato di Papa Giovanni e con il Vaticano secondo. Niente di più indigesto per Papa Pacelli e per il suo beniamino, Luigi Gedda, fondatore dei Comitati civici e trionfatore, appena un gradino dopo De Gasperi, nelle elezioni politiche del 1948, le stesse che dettero alla DC la “storica” maggioranza assoluta in Parlamento.
Ma torniamo a Eco. Molti anni dopo Gedda racconta nelle sue memorie – intitolate, non a caso, “18 aprile 1948″ – che il ventenne Umberto, delegato studenti di Alessandria in Piemonte, era stato chiamato a Roma da Carlo Carretto, predecessore di Rossi, e che proprio a Roma avrebbe perduto la fede, vittima del clima che si era creato nella GIAC durante la presidenza di Mario Rossi, il quale – sostiene Gedda -avrebbe tentato di conferirle ”un’impronta marxista”. Peggio, ne avrebbe fatto ”un covo di ribelli, motivo di scandalo per i giovani cattolici, piu’ o meno coscientemente uno strumento dei comunisti”. Di quel “covo” facevano parte giovani che occuperanno in seguito posti importanti, come Enzo Scotti (ministro del tesoro),Emanuele Milano e Luciano Tavazza (dirigenti RAI), Pietro Pfanner (neuropsichiatra)ecc.
In realtà, come pare abbia detto lui stesso, Eco smise di credere in Dio durante i suoi studi universitari su Tommaso d’Aquino, tanto che in seguito commentò quella svolta della sua vita con una battuta ironica delle sue: “si può dire che lui (Tommaso d’Aquino) mi abbia miracolosamente curato dalla fede”. Ma più in generale, quale fosse l’atteggiamento di Umberto Eco verso la fede e la laicità, compresa quella di orientamento marxista, risulta chiaro, anzi chiarissimo, dal carteggio che ebbe con il cardinale Carlo Maria Martini, pubblicato diverse volte in varie lingue con il titolo “In cosa crede chi non crede?” Ed è da quest’ultimo, facilissimo per chi lo voglia da reperire sul web, che mi pare bello e utile riproporre in questa occasione una pagina rivelativa di un lato importante della sua personalità (non spaventatevi per la lunghezza perché ne vale la pena):
“…Ero ancora un giovane cattolico sedicenne – racconta Umberto Eco al grande arcivescovo di Milano – e mi accadde d’impegnarmi in un duello verbale con un conoscente più anziano noto come “comunista”, nel senso che aveva questo termine nei terribili anni Cinquanta. E siccome mi stuzzicava, gli avevo posto la domanda decisiva: come poteva, lui non credente, dare un senso a quella cosa altrimenti insensata che sarebbe stata la propria morte? E lui mi ha risposto: «Chiedendo prima di morire il funerale civile. Così io non ci sono più, ma ho lasciato agli altri un esempio.
“Credo – prosegue lo scrittore sempre rivolgendosi al cardinale Martini – che anche Lei possa ammirare la fede profonda nella continuità della vita, il senso assoluto del dovere, che animava quella risposta. Ed è il senso che ha spinto molti non credenti a morire sotto tortura pur di non tradire gli amici, altri a farsi appestare per guarire gli appestati. È anche talora l’unica cosa che spinge un filosofo a filosofare, uno scrittore a scrivere: lasciare un messaggio nella bottiglia, perché in qualche modo quello in cui si credeva, o che ci pareva bello, possa essere creduto o appaia bello a coloro che verranno. È davvero questo sentimento così forte da giustificare un’etica tanto determinata e inflessibile, tanto saldamente fondata quanto quella di coloro che credono nella morale rivelata, nella sopravvivenza dell’anima, nei premi e nei castighi?
“Ho cercato di basare i princìpi di un’etica laica su un fatto naturale (e, come tale, anche per Lei risultato di un progetto divino) quale la nostra corporalità e l’idea che noi sappiamo istintivamente che abbiamo un’anima (o qualcosa che ne fa funzione) solo in virtù della presenza altrui. Dove appare che quella che ho definito come etica laica è in fondo un’etica naturale, che neppure il credente disconosce. L’istinto naturale, portato a giusta maturazione e autocoscienza, non è un fondamento che dia garanzie sufficienti? Certo possiamo pensare che non sia sprone sufficiente alla virtù: tanto, può dire chi non crede, nessuno saprà del male che sto segretamente facendo. Ma badi bene, chi non crede ritiene che nessuno lo osservi dall’alto e quindi sa anche che – proprio per questo – non c’è neppure qualcuno che possa perdonare. Se sa di aver fatto il male, la sua solitudine sarà senza limiti, e la sua morte disperata. Tenterà piuttosto, più del credente, il lavacro della confessione pubblica, chiederà il perdono degli altri. Questo lo sa, dall’intimo delle sue fibre, e quindi sa che dovrà in anticipo perdonare gli altri. Altrimenti come si potrebbe spiegare che il rimorso sia un sentimento avvertito anche dai non credenti?
“Non vorrei che si instaurasse una opposizione secca tra chi crede in un Dio trascendente e chi non crede in alcun principio sovraindividuale. Vorrei ricordare che proprio all’Etica era intitolato il grande libro di Spinoza, che inizia con una definizione di Dio come causa di se stesso. Salvo che questa divinità spinoziana, ben lo sappiamo, non è né trascendente né personale: eppure anche dalla visione di una grande e unica Sostanza cosmica in cui un giorno saremo riassorbiti, può emergere una visione della tolleranza e della benevolenza proprio perché all’equilibrio e alla armonia dell’unica Sostanza siamo tutti interessati. Lo siamo perché in qualche modo pensiamo che è impossibile che questa Sostanza non venga in qualche modo arricchita o deformata da quello che nei millenni anche noi abbiamo fatto. Così che oserei dire (non è una ipotesi metafisica, è solo una timida concessione alla speranza che non ci abbandona mai) che anche in tale prospettiva si potrebbe riproporre il problema di una qualche vita dopo la morte.
“Oggi l’universo elettronico ci suggerisce che possano esistere delle sequenze di messaggi che si trasferiscono da un supporto fisico all’altro senza perdere le loro caratteristiche irripetibili, e sembrano persino sopravvivere come puro immateriale algoritmo nell’istante in cui, abbandonato un supporto, non si sono ancora impressi su un altro. E chissà che la morte, anziché implosione, sia esplosione e stampo, da qualche parte, tra i vortici dell’universo, del software (che altri chiamano anima) che noi abbiamo elaborato vivendo, fatto anche di ricordi e rimorsi personali, e dunque sofferenza insanabile, o senso di pace per il dovere compiuto, e amore“.