La lezione di Umberto Eco che tutti noi dovremmo custodire come patrimonio inestimabile

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I capolavori letterari sono quei libri che restano vividi nei ricordi di chi li legge sin dalle prime pagine. Umberto Eco, con “Il nome della rosa”, ha impresso dei solchi profondissimi nella mia memoria che, a distanza di decenni, sono rimasti e restano inalterati e rassicuranti, come una culla dei primi rudimenti culturali di una ragazzina che più leggeva, più arricchiva la sua conoscenza, e più aveva sete di ‘sapere’.

Dieci anni dopo quella lettura, trovandomi di fronte a lui nel 1998, all’inizio di un maggio inaspettatamente radioso a Bologna dove ero a seguire un seminario del corso di Laurea in Scienze della Comunicazione diretto dallo stesso Eco, rimasi sconvolta da una sua affermazione. Alle mie osservazioni su quello che ritenevo, appunto, uno dei capolavori del ‘900, e alla chiara ‘passione’ manifestata per la sua opera, il grande scrittore rimbrottò: “Un capolavoro? Hai ben altro da leggere cara ragazza”.

Furono pochi scambi di battute, prima di una lezione sulla ‘traduzione intersemiotica’, lanciati lì con tono greve ma sguardo sornione che diceva molto più delle sue parole.

Eppure, nonostante fossi consapevole che quell’affermazione avesse altre implicazioni, tra cui lo sprone a leggere sempre di più, e lasciasse spazio a varie interpretazioni, mi fu chiaro che Eco non amasse il suo più grande libro quanto i suoi estimatori. Quando nel 2011, al salone del libro di Torino, manifestò palesemente la sua insofferenza, affermando addirittura che lo ‘odiava’ e sperava che anche chi lo stesse ascoltando lo odiasse, perché di romanzi ne aveva scritti sei e gli ultimi cinque erano migliori, capii quanta verità ci fosse in quella frase borbottata simpaticamente qualche anno prima a una studentessa a cui stava dando la lezione più importante della su vita.

Questo era Umberto Eco. Uomo colto, infinitamente, dal sapere enciclopedico ma dal piglio non forzatamente accademico, era una persona disponibile, amichevole e molto ironica. Nonostante la fama internazionale, è stato di fatto l’unico vero intellettuale italiano a goderne in maniera planetaria, era rimasto un socievole e divertente professore, mite e bonario ma che di fronte a quanto non gradiva e trovava ingiusto tirava fuori un carattere insofferente e polemico,

La sua passione era scrivere, certo, ma insegnare, ‘educare’ i giovani al sapere, a ‘guardare’ alla realtà così com’è, è rimasta la principale missione della sua esistenza.

Amava sottolineare spesso che era inutile coltivare le illusioni “cercare di mantenerle per evitare il dolore del disincanto. La vita va affrontata in tutte le sue espressioni di fatto”. E insisteva “la maggioranza silenziosa va educata. Anzi, tenuta sveglia. E le sveglie non sono mai state simpatiche a nessuno». Come chi era in grado di smascherare discorsi falsamente ideologici, trasformando questa capacità in forma personale e professionale di impegno politico. Un impegno che ne hanno fatto il grande scrittore, filosofo, semiologo e massmediologo che tutti noi abbiamo amato.

Grazie professore.


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