Il giornalista Peter Moi morto per la sua denuncia

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Non hanno ancora un volto gli assassini di Peter Julius Moi, giornalista sud sudanese non ancora trentenne ucciso a colpi di pistola mercoledì 19 agosto nella periferia di Juba, la capitale del Sud Sudan, ma il movente è chiaro. Peter, come altri coraggiosi colleghi, continuava a raccontare gli episodi di corruzione e le ragioni dietro il conflitto tra dinka e nuer, le prin­ci­pali etnie del paese, che stanno stremando il più giovane Stato del mondo, già in ginocchio a causa della vasta crisi umanitaria che investe tutto il Paese.

Il governo di Salva Kiir ha assicurato che i killer di Moi, che lavorava per il giornale locale The New Nation, saranno presto identificati e affidati alla giustizia. Il portavoce del presidente Kiir, Ateny Wek Ateny, annunciando che la polizia aveva “subito” avviato un’indagine sul delitto, aveva negato che il capo dello Stato avesse “incentivato qualunque violenza contro i giornalisti locali con le ultime dichiarazioni contro la stampa”. “Le dichiarazioni di Kiir – aveva sottolineato Ateny – sono state decontestualizzate e pubblicheremo al più presto un comunicato per chiarirle”.
Il capo di Stato pochi giorni prima dell’uccisione di Moi aveva affermato che “libertà di stampa non significa lavorare contro il proprio paese”. Una chiara minaccia nei confronti dei giornalisti che non seguono la linea del regime.
Dall’inizio del 2015 nel Sudan del Sud sono già stati uccisi sette giornalisti.

Le condizioni della libertà di stampa sono peggiorate dal dicembre del 2013, quando è scoppiata una guerra civile tra le forze governative fedeli al presidente Kiir e i ribelli guidati dall’ex vicepresidente Riek Machar.
Secondo le associazioni di categoria, Kiir con il suo commento ha voluto ammonire i reporter che lo avevano criticato per il mancato accordo di pace con i ribelli. Il Sud Sudan 150esimo su 180 Paesi nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo stilata dall’ong Reporters Without Borders. All’inizio di agosto le autorità hanno chiuso diversi giornali, tra cui il quotidiano arabo Al-Rai, quello inglese Citizen e la testata indipendente Free Voice South Sudan. Tutti ritenuti responsabili di fare disinformazione e di attaccare con falsità il governo con il solo intento di favorirne il rovesciamento.

Ma i nostri colleghi non hanno alterato alcunché. La situazione in Sud Sudan, sia sotto l’aspetto umanitario sia per ciò che concerne la sicurezza, è ben oltre il limite della sopravvivenza.
Secondo le Nazioni Unite, metà degli 8 milioni di abitanti sono oggi a rischio di fame e di malattie. Una crisi classificata dalle agenzie internazionali a ‘livello 3’, come quella siriana. Inoltre il timore che il Paese potesse non reggere all’indipendenza si è concretizzato nel peggiore dei modi, piombando nel caos con lo scontro tra le formazioni partitiche che ha dissolto nel nulla il collante politico dell’unità nazionale. Cinquanta organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International, Global Witness, Save the Children e Oxfam, hanno denunciato che entrambe le parti in conflitto di crimini di guerra, chiedendo un embargo sulle armi, provenienti soprattutto dal mercato cinese e ucraino.
I morti stimati dallo scorso gennaio sono almeno 10 mila, oltre 1 milione e 900 mila di sud sudanesi hanno dovuto lasciare la propria casa (1.300.000 sfollati all’interno del Paese, 600.000 negli Stati confinanti), tra cui più di un milione minori.
La carestia minaccia oltre 4 milioni di persone. A causa dei combattimenti, gli agricoltori non hanno potuto seminare i campi.
Secondo Medici senza Frontiere, l’emergenza sanitaria più grave al momento è la malaria.

Nella zona occidentale, i pazienti curati nel 2014 sono stati circa 60 mila, il triplo rispetto all’anno precedente. È questa una delle cause per cui il Sud Sudan ha il tasso di mortalità infantile più alto al mondo.
I dati sulle conseguenze del conflitto stanno lì a dimostrare che è la guerra la madre di tutte le povertà e che le vittime che pagano il prezzo più alto sono i più piccoli: i bambini mutilati dalle armi, quelli con le pance gonfie e braccia e gambe scheletriche e gli orfani senza futuro. Per l’Unicef, 235 mila sotto i 5 anni soffrono di malnutrizione acuta grave, mentre 12 mila bambini sono stati arruolati come soldati nell’ultimo anno.
Il 20 febbraio di quest’anno un gruppo armato ha fatto irruzione in una scuola a Malakal, nel Sud Sudan, nella regione dell’Alto Nilo per rapire gli studenti e farne bambini – soldato. La notizia è stata confermata dall’Onu, secondo cui i bambini avevano circa 12 anni e stavano sostenendo degli esami.
I più piccoli, nelle rispettive classi, stavano ascoltando la quotidiana lezione che i loro insegnati avevano preparato per quel giorno. Da pochi mesi in questa area dove migliaia di persone avevano trovato rifugio dopo un lungo periodo di violenze, combattimenti e fughe dai villaggi attaccati dai miliziani, erano ricominciate le attività scolastiche.
Ma la pace e il senso di sicurezza sono durati poco.
Quando il gruppo armato  ha fatto irruzione è stato il panico, tutti sapevano cosa volevano. Hanno cominciato a girare aula per aula e costretto bambini e adolescenti a seguirli sotto la minaccia delle armi. Gli adulti presenti non hanno potuto far nulla per impedirlo.

Ma i miliziani sono andati oltre. Hanno circondato le abitazioni di tutta la comunità e perquisito casa per casa alla ricerca di altri piccoli da portar via. Alla fine del raid i rapiti erano 89, tra gli 11 e i 16 anni.
A nulla sono valsi gli appelli, immediati, dei funzionari delle Nazioni Unite che hanno chiesto ai rapitori di rilasciare le vittime del sequestro, ricordandogli che stavano violando il diritto internazionale.
Insomma, tra violenze tribali, scontri armati che coinvolgono civili indifesi e la crisi umanitaria sempre più grave, il presidente Salva Kiir sembra incapace di prendere in mano il destino del suo Paese. E i giornalisti uccisi lo denunciavano, testimoniando l’aggravarsi della situazione nell’indifferenza di un governo corrotto e incapace.


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