Povertà infantile: una tragedia che non interessa quasi a nessuno

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Siamo lieti di arrecare l’ennesimo dispiacere ai “benaltristi” di professione, cioè a quei giornalisti, a quegli pseudo-intellettuali e a quegli esponenti politici che, non appena si introduce il tema cruciale dei diritti, storcono la bocca e redarguiscono l’interlocutore con l’ormai tristemente celebre frase: “Ben altro è il problema!”. Perché, a nostro giudizio, è inaccettabile che solo “Il manifesto” abbia dedicato il titolo d’apertura al dramma denunciato dall’ultimo dossier presentato da “Save the Children”, intitolato “Allarme infanzia” ed estremamente chiaro nei contenuti e nell’esposizione della tragedia che si sta consumando nel nostro Paese: tra tagli indiscriminati ai settori dell’istruzione e della ricerca, mancanza di posti di lavoro, aumento della pressione fiscale e sfarinamento del tessuto sociale sono oramai milioni le famiglie che vivono ai limiti della soglia di povertà e, come sempre accade, a pagare il prezzo più alto sono i bambini, ossia il nostro futuro, le risorse che dovremmo coltivare e invece non facciamo altro che umiliare e calpestare.

Allo stesso modo, ci sembra inaccettabile che l’intero dibattito politico di questi giorni sia ruotato unicamente intorno alle sparate del fanfarone di turno, ignorando un argomento di questa gravità al punto che la sola voce che abbiamo ascoltato in Parlamento è stata quella della deputata democratica Sandra Zampa, la quale ha asserito con una fermezza che le fa onore che “davvero non è possibile che la crisi venga pagata dai più giovani, dai piccoli, dai ragazzini, dai nostri giovanissimi fratelli, figli o nipoti”. Il guaio è che conosciamo bene le ragioni di questo silenzio che solo in alcuni casi è frutto di ignoranza, disinteresse e scarsa sensibilità mentre in altri è dovuto ad una precisa scelta: quella di non introdurre temi “divisivi” o “destabilizzanti”, altrimenti i fragilissimi equilibri sui quali si regge l’attuale governo potrebbero rompersi.

Perché finché si parla di cultura in termini vaghi e astratti va tutto bene ma quando si comincia a spiegare alla gente che la cultura e l’istruzione sono non solo dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione ma, soprattutto, delle straordinarie leve economiche che da dieci anni l’Italia si rifiuta di utilizzare, si ottiene il sorprendente effetto che qualcuno inizi a interrogarsi sui motivi per cui l’Italia ha rinunciato al proprio petrolio e, più che mai, sull’assurdità di affermazioni come quella di tremontiana memoria secondo la quale “con la cultura non si mangia”.

E allora entrano in funzione i “benaltristi” ed ecco che l’emergenza principale è il lavoro: il che è verissimo, salvo che, se il trenta per cento dei bambini sotto i sei anni vive ai limiti la soglia di povertà, la causa va ricercata proprio nell’assenza o nell’estrema precarietà del lavoro dei loro genitori.

Senza contare le riforme costituzionali, la riforma della legge elettorale e gli impegni assunti con l’Europa, come se la prima parte della Costituzione non tutelasse la dignità, la salute e il diritto a un’esistenza dignitosa dell’intera popolazione, a cominciare dai ceti sociali più deboli; come se il sacrosanto smantellamento del Porcellum fosse in contrasto con le politiche volte a favorire l’equità sociale; come se l’Unione Europea non stesse sbagliando strada da anni, tanto da aver strangolato la Grecia, messo in ginocchio la Spagna e fatto regredire l’Italia, in tutti gli ambiti, di almeno un trentennio.

Per non parlare poi dei rischi che si corrono quando ci si imbatte in qualche sindaco convinto che i figli degli immigrati poveri, che non possono pagare la retta della mensa scolastica, debbano rimanere a pane e acqua o, semplicemente, non abbiano diritto ad alcuna forma di refezione.

Infine, ed è il pericolo maggiore, nello spiegare che la prospettiva concreta che ci si pone davanti è quella di veder ipotecato il futuro di almeno quattro generazioni, non potremmo fare a meno di far presente al popolo che, se siamo ridotti così, il novanta per cento delle responsabilità appartiene a Berlusconi e ai suoi governi; e allora sì che l’esecutivo potrebbe cadere, nonostante l’impegno ammirevole di Letta, nonostante la serietà e la saggezza del Partito Democratico nel sostenerlo, mettendo generosamente a rischio perfino la sua stessa sopravvivenza, nonostante la passione e la dedizione con cui centinaia di parlamentari del centrosinistra si battono ogni giorno per alleviare le sofferenze di un Paese allo stremo e nonostante gli appelli all’unità e alla coesione nazionale del Capo dello Stato.

Mentre scrivo queste considerazioni, mi torna in mente una bellissima riflessione di Benigni: “Il futuro non lo abbiamo ricevuto in eredità dai nostri padri, lo abbiamo preso in prestito dai nostri figli”. In questa frase di Benigni, è riassunto, a mio giudizio, il senso e la missione di Articolo 21: illuminare i temi oscurati, indurre certi colleghi a riflettere sull’assordante rumore delle loro omissioni e dei loro silenzi, indurre la buona politica (che c’è ed è tanta, specie a sinistra) a far proprie queste battaglie di civiltà e indurre la pessima politica (che c’è e, purtroppo, è trasversale) a vergognarsi per il proprio barbaro cinismo, ben riassunto dalle considerazioni che determinati soggetti non hanno il coraggio di pronunciare pubblicamente ma che si leggono loro negli occhi: “Ma che ce ne importa dei bambini? Tanto non votano! Se poi a vivere in condizioni disperate sono i figli degli immigrati, tanto meglio: non votano nemmeno i loro genitori e possiamo persino farne una bandiera”.

Ed è riassunto, in conclusione, anche il motivo principale per cui un sabato di marzo di diversi anni fa, era il 2006, decisi di dedicarmi attivamente alla politica. Accadde nel corso di una conferenza organizzata al Teatro Valle dalla Consulta Rodari per l’Infanzia e l’adolescenza dei DS, cui partecipai nell’ambito del Forum Zai.net (la rivista studentesca presso cui lavoravo all’epoca che fu invitata all’evento). Avevo quindici anni e ricordo bene che, al di là dell’emozione immensa che provai nel salire sul palco accanto a personalità come Piero Fassino e Livia Turco, avvertii per la prima volta il desiderio di dedicare la vita agli altri e, in particolare, a coloro che – per dirla con Nenni – “sono nati indietro”. Nella relazione introduttiva, Anna Serafini affermò: “Solo il rispetto degli altri, lo spirito di servizio deve guidarci nell’azione politica. Specialmente quando questa riguarda la vita dei bambini. Sono infatti ancora troppe le porte da aprire: troppe diseguaglianze, gerarchie, le tengono chiuse. Le bambine e i bambini in Italia e nel mondo bussano, ma non hanno la forza di aprirle. Hanno bisogno di noi. E noi, tutti insieme ci saremo”.

Eravamo alla vigilia delle sfortunate elezioni pareggiate un mese dopo dall’Unione e mai avrei immaginato, né tanto meno voluto, che sette anni dopo quelle parole fossero ancora così attuali.


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