Carta Onu su violenza contro le donne, l’Italia e Bersani

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In un paese vicino Frosinone, l’altro ieri un un uomo di 57 anni ha inseguito con l’auto la sua ex, anche lei in macchina, speronandola fino a farla schiantare contro un muro e poi, con un’ascia, ha frantumato il vetro dello sportello per colpire la donna che invece è riuscita a ripartire e scappare; mentre rimangono ancora gravi le condizioni della donna ritrovata col cranio fracassato a Ferentino, massacrata dal suo convivente tre giorni fa. L’8 marzo la Casa delle donne di Bologna ha pubblicato i suoi dati, per cui i femminicidi nel 2012 sarebbero stati 124 in Italia, un numero che si alza se vengono messe nel conto anche le vittime collaterali di queste uccisioni, numeri e dati che vengono raccolti dalle stesse associazioni attraverso la stampa, e quindi non ufficiali, perché il nostro ministero degli interni non li raccoglie come dovrebbe.

Pochi giorni fa si è conclusa a New York la 57a “Commission on the Status of Women” delle Nazioni Unite dove 193 paesi del mondo hanno firmato una carta storica contro la violenza sulle donne che seppur non vincolante è un altro tassello nel contrasto al femminicidio. Nel testo di 17 pagine si condannano la violenza contro donne e bambine, chiedendo maggiore attenzione e accelerazione nel prevenire e rispondere al fenomeno, dando priorità alla creazione di una rete di servizi a sostegno delle donne, la fine dell’impunità dei responsabili, il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, il diritto a uguali diritti umani per uomini e donne. Ma per capire a che punto siamo, è bene far sapere che a questa carta, che ribadisce anche concetti già presenti in altre raccomandazioni internazionali, ci sono state forti obiezioni da parte di paesi come Egitto, Iran, Sudan, Arabia Saudita, Qatar, Honduras, mentre la Libia non l’ha proprio sottoscritta. Le resistenze si sono concentrate sul passo in cui si chiariva che la violenza contro le donne non può essere giustificata da “nessun costume, tradizione o considerazione religiosa”, un concetto che ha fatto infuriare l’Egitto, e ha provocato la rottura della rappresentante egiziana alla Commission, Mervat Tallawy, che ha replicato ai Fratelli Musulmani, firmando la carta e dichiarando che “La solidarietà internazionale è necessaria per dare i poteri alle donne e prevenire quest’aria di repressione”. Tra i punti considerati inammissibili da alcuni paesi islamici c’è la “piena uguaglianza nel matrimonio” che consente di denunciare il coniuge violento, e la garanzia di libertà sessuale per le ragazze con l’accesso ai contraccettivi. A esprimere contrarietà però non sono stati soltanto questi paesi, perché l’alleanza contro le donne è uno schieramento intereligioso che ben si trova unito, se necessario, contro il nemico comune. A trovare sconveniente il passaggio sul diritto all’aborto e alla salute riproduttiva delle donne sono stati anche il Vaticano (che ha un seggio all’ONU come Stato non membro osservatore permanente), la Russia e l’Iran che, come hanno già fatto nell’incontro di Rio+20 l’anno scorso, volevano cassare questa parte.

I dati dell’Onu indicano che 7 donne su 10 subiscono violenza nel corso della vita e 603 milioni di donne vivono in nazioni che non la considerano un reato. I giornali italiani hanno parlato pochissimo di queste due settimane internazionali di lavoro sulla violenza (e quasi nulla su questo importante documento internazionale contro la violenza sulle donne), malgrado l’Italia fosse presente sia a livello istituzionale che con Ong che hanno presentato i vari aspetti del fenomeno nel nostro Paese. A questi incontri, che sono durati dal 4 al 15 marzo, la ministra del lavoro Elsa Fornero, con delega alle pari opportunità, ha fatto un discorso dove ha evidenziato quello che il nostro Paese, con il governo Monti, ha fatto. Ha parlato della violenza domestica e del femminicidio citando i dati della Casa di Bologna, la Convenzione di Lanzarote sui minori adottata da noi, il mandato che ha dato all’Istat per la raccolta di nuovi dati sulla violenza, la firma alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Istanbul 2011) – a oggi ratificata solo da Turchia, Portogallo e Albania – ma soprattutto ha elencato una serie di misure che il suo governo avrebbe attuato per contrastare il fenomeno: ma quali? Fornero a New York ha detto pubblicamente che “A livello nazionale, l’Italia ha rafforzato i meccanismi di prevenzione alla violenza, garantito adeguate strutture di assistenza alle vittime e ai loro bambini, accesso a servizi specializzati per donne abusate, e provveduto alla sicurezza e al supporto di cui hanno bisogno queste donne per rompere la spirale della violenza”, specificando che il governo, su questo, ha lanciato “specifiche inziative nel 2012”. Ma davvero? Il governo Monti ha fatto questo e noi non ci siamo accorte di nulla?

Oltre alle Ong, che hanno dato un quadro più realistico della situazione italiana, alla 57a Commissione dell’UN, ha parlato Susanna Camusso, Segretaria Generale della Cgil, dicendo chiaramente che “le azioni di prevenzione, contrasto e punizione intraprese dai governi e da importanti attori istituzionali non sono state sufficienti a frenare la violenza fino ad ora”. Per chi ha partecipato direttamente ai lavori della 57a Commission, come Barbara Spinelli – avvocata penalista di Giuristi democratici esperta di femminicidio – “la sensazione è stata che mentre per l’Italia erano presenti molte Ong, per altri paesi le associazioni di donne erano accompagnate da magistrate e affiancate anche da rappresentati istituzionali, per dare un focus a 360 gradi del fenomeno. Quello che mi ha positivamente sorpresa – continua – è stato vedere che alcuni paesi avevano instaurato una vera alleanza tra le istituzioni e le attiviste, e l’ho visto soprattutto nelle donne austriche, norvegesi e zambesi. Nel panel norvegese, per esempio, la ministra (Inga Marte Thorkildsen, ndr), ha fatto un discorso molto efficace sulle dinamiche di discriminazione di genere e di come sia importante la lotta al pensiero patriarcale, che permette la violenza contro le donne, anche nei paesi con avanzate politiche sulle pari opportunità”. Una situazione ben diversa dall’Italia, dove questa elaborazione così avanzata da parte delle istituzioni non c’è, e non c’è neanche l’umiltà di ascoltare i veri bisogni delle donne e dei loro figli, attraverso la voce di chi ci lavora tutti i giorni e che, sapendo bene quello che succede nella realtà, ha anche gli strumenti adatti per pensare a una soluzione concreta.

Dieci giorni fa Pierluigi Bersani ha presentato gli 8 punti con cui spera di fare un governo con il M5s, e al punto 7 indica una legge contro il femminicidio. Riprendendo il filo di questo discorso, e di tanti che già abbiamo fatto, mi chiedo perché dobbiamo aspettare di discutere e far passare i tempi di una legge, quando invece qui in Italia servono misure e politiche di prevenzione, tutela e di protezione efficaci e immediate. Perché non approfittare della scadenza del Piano nazionale antiviolenza varato dalla ex ministra delle pari opportunità, Mara Carfagna, che è appena scaduto e che andrebbe rivisto e rimesso a punto, come suggerisce anche la Convenzione nazionale “No More” contro la violenza sulle donne. Come riporta il documento dell’Onu “Il modo migliore per porre fine alla violenza contro le donne è quello di impedire che accada” ma senza aspettare i tempi di una legge che in Italia forse non servirebbe neppure se le istituzioni applicassero bene quelle che già ci sono (magari con qualche ritocco). Una bella mano la darebbe invece la ratifica della Convenzione di Istanbul, e la reale applicazione da parte delle isituzioni italiane delle raccomandazioni Cedaw e quelle della Special Rapporteur, Rashida Manjoo, e ora anche con il recepimento della nuova Carta dell’Onu sulla violenza. Le indicazioni per un reale contrasto alla violenza sulle donne non mancano, anzi abbondano, e vanno applicate prima che muoiano altre donne, ascoltando attentamente quello che la società civile ha da dire: lo ha detto alle Nazioni Unite, non ha certo problemi a esprimersi chiaramente con le istituzioni del proprio Paese.

* blog “Il Manifesto”


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