Doveva essere una cavalcata indemoniata, con colonna sonora di Wagner, quella delle destre nei territori della cultura italiana. E già, perché -secondo la vulgata ricorrente nel governo e zone affini- l’erba comunista andava estirpata. Com’è fin troppo noto, se del comunismo non c’è traccia, l’anticomunismo prospera, diventato com’è una moda e persino una linea editoriale o un corpo che siede nei talk televisivi.
Ebbene, se l’intenzione era davvero quella annunciata dall’ex ministro Sangiuliano di introdurre sulla scena una «contronarrazione», il risultato è grottesco. Altro che amore, sì e no un calesse, per citare il grande Troisi.
L’ultima figuraccia ha riguardato le inevitabili dimissioni della presidente dell’Istituto Luca-Cinecittà per le polemiche ormai annose sull’omologo ruolo ricoperto nell’associazione dei produttori televisivi (Apa), nonché per altre storie variamente chiacchierate. Per di più, la evocata Chiara Sbarigia avrebbe coltivato un’intesa privilegiata con la sottosegretaria Lucia Borgonzoni, leghista in competizione con il ministro.
Certamente, è bizzarro che il partito cresciuto con lo slogan di «Roma ladrona» si sia assiepato nei meandri dello spettacolo (peraltro in seria crisi, ma di questo né il titolare del dicastero né la medesima sottosegretaria paiono preoccuparsu), ma al fascino dell’immaginario non si resiste. Comunque, al netto dei conflitti di interesse (come mai deflagrati solo ora, a parte le denunce di qualche penna pepata?), il nodo politico spiega molto.
Il Ministero della cultura (Mic) ha alla testa un giornalista-intellettuale proveniente dalle fila meno urlanti della destra, ma è largamente adagiato nei punti di maggiore visibilità su un alleato competitore nel e del governo.
Altro, dunque, che narrazione alternativa. Siamo davanti ad una tristemente consueta dinamica di un ceto politico che di nuovo non ha nulla. Anzi.
In verità, per segnalare tracce di vita, il ministero sta sfoderando l’unico strumento che conosce: reprimere, tagliare, colpire chi non si allinea al pensiero unico. Fa niente che un pensiero non si appalesi, né unico né doppio o triplo. Ma non conta, trattandosi di un mero richiamo ideologico.
Gli esempi sono numerosi: dai pasticci inquietanti sul tax credit (meccanismo malato e figlio dei cascami del liberismo, ormai irriformabile) al netto delle recenti storie criminose, ai colpi mortali inferti ad eventi storici come il festival di Santarcangelo o i Teatri di Vetro. Solo esempi di una strisciata lunga. Fino al caso emblematico (ne ha scritto con rigore sul manifesto dello scorso 20 giugno Gianfranco Capitta) del ridimensionamento dello storicissimo Teatro La Pergola di Firenze, con un deliberato schiaffo al nuovo direttore Stefano Massini. Si è trattato di un messaggio rivolto a coloro che dissentono: guai a voi. Colpirne alcuni (per ora) per educarne cento, mille.
Sopire, troncare, secondo il motto del Conte Zio, al confronto un illuminato signore sensibile e democratico.
Torniamo alle dimissioni della presidente dell’Istituto Luce. Che accadrà ora? Vi sarà una successione secondo una copia sbiadita del manuale Cencelli? Da dove arriverà il/la sostituto/a? Da Colle Oppio di Roma, da un ex circolo missino?
Non sarà l’occasione -invece- ministro Giuli di segnare una discontinuità? Magari con l’individuazione di una rosa di persone da sottoporre alle competenti commissioni parlamentari e alle associazioni di settore, con tanto di cross examination.
Le citate associazioni del cinema e dell’audiovisivo si sveglino da un sonno concertativo troppo lungo (auguri all’Anac, che oggi a Roma inaugura la nuova sede) e si buttino nell’agone, come insegnarono i maestri Maselli e Scola, per citarne alcuni.
Infine, non si chiuda l’incidente con una dimissione. Sono diverse le persone intramontabili nell’universo dell’amministrazione e dei produttori che dovrebbero fare un passo di lato.
Un ministero che fu significativo rischia ora nell’agitare la scimitarra di fare harakiri, come in un cinepanettone.