Una “ninna nanna” di Cosa Nostra

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Questo “Ninna nanna” di Rita Mattei è un libro pericoloso, da maneggiare con prudenza. Lo cominciate a leggere la sera? La vostra sarà una notte insonne. Di giorno? Auguratevi di non aver preso appuntamenti, se sì, prima di cominciare abbiate cura di disdirli. Molto meglio affrontare questo libro una domenica, un giorno di festa, comunque di vostra libertà. Per la buona ragione che dopo averlo aperto, non ve ne staccherete più: dovrete per forza leggere tutte le sue quasi 400 pagine. Con un “supplemento” di cui è bene tener conto: inevitabilmente su alcuni capitoli ci tornerete, per meglio capire, per meglio fare vostra la storia raccontata.

   Ninna nanna” ha poi un altro “difetto”: è scritto in un buon italiano. La sua autrice per anni è stata una spericolata, caparbia, sagace inviata speciale del “Tg2” e del “Tg3”. Gentile, simpatica, disponibile; al tempo stesso determinata, meticolosa, ottime fonti, leale: la notizia “sacra”, ma non al punto di vendere l’anima per averla. Ne sanno qualcosa i tanti colleghi, molti come si dice “d’esperienza”, che da lei non hanno mai avuto sgambetti, ma “buchi” professionali in quantità.

   Ora che si può concedere giorni di più meditata riflessione su quello che accade ed è accaduto, ci regala libro: non è un romanzo, neppure un saggio. Come definirlo? Lo si può rubricare in quel particolare tipo di narrativa/verità di cui Leonardo Sciascia è stato un po’ il padre: gli “Atti relativi alla morte di Raymond Roussel”, “La strega e il capitano”, “I pugnalatori”, “La scomparsa di Majorana”.

   E’ comunque una vera storia di mafia e mafiosi; storia dura, spietata, disperante. Una saga che racconta dei corleonesi: Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella; presentati come protagonisti di un “romanzo” che ha insanguinato per anni Palermo, la Sicilia, il Paese; anche se molti di questi protagonisti sono morti, non per questo può dirsi conclusa, finita. Una storia e un “romanzo” visti e descritti con lo sguardo di una donna.

   Non è una donna qualunque: è Vincenzina Marchese, che parla. E’ la figlia, la moglie, di mafiosi; pienamente immersa nel mondo mafioso, cosciente, consapevole; magari non sa, ma molto capisce e intuisce; sa collegare i fatti, ragiona sulle “coincidenze”, sa ricavarne le giuste conclusioni. Non si rende colpevole di nessun crimine, ma li condivide tutti, vive nella “bolla” mafiosa sapendo di farlo. Una storia tremenda, quella di questa ragazza, lungo e complesso sarebbe scendere qui nel dettaglio. Basti dire che Vincenzina si innamora perdutamente, ricambiata, di Leoluca Bagarella, fratello di Antonietta, la fedelissima moglie di Riina; Vincenzina lo sa di essere la compagna di quel “don Luchino” responsabile di centinaia di omicidi dagli anni ’70 ai ’90, compreso il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un collaboratore di giustizia. Il ragazzino per mesi viene tenuto segregato in una buca, poi strangolato, infine il corpo sciolto nell’acido. Vincenzina viene dalla cosca di Corso dei Mille a Palermo: killer e trafficanti tra le più antiche e spietate. Il capofamiglia, Filippo Marchese detto Milinciana, è suo zio. Uccide con le sue mani nella camera della morte di Sant’Erasmo, sul lungomare palermitano. Per Vincenzina, la madre, le altre donne del clan, la mafia è una pelle, una mostruosa cosa “normale”. La vivono e respirano con sconcertante naturalezza. A fronte di tanto orrore, sconcerta la tenerezza, il riguardo, il rispetto, l’amore di cui Vincenzina e il marito sono capaci; fino all’estremo, definitivo sacrificio. La conferma che nell’animo umano c’è posto per tutto e il suo opposto.

   Non siamo, con “Ninna nanna” ai livelli de “Il padrino” di Mario Puzo. In quel romanzo il boss mafioso quasi ti ispira simpatia, complice la straordinaria interpretazione di Marlon Brando, alla fine di Vito Corleone avresti perfino la tentazione di essere amico, tanto emana fascino e intriga il suo sapiente dosaggio tra spietatezza, “offerte che non si possono rifiutare” e “fa la cosa giusta”. Qui, per fortuna no. Rita Mattei è abile nello schivare questo possibile rischio. La Cosa Nostra che descrive è quel mondo di infami farabutti che sappiamo (lo sappiamo, vero?); la tentazione semmai è opposta: punirli assai più duramente di quanto la legge consenta.

   Per le mani vi troverete un “condensato” di molte vicende che l’autrice ha vissuto in prima persona: dalla strage a Capaci a quella di via D’Amelio a quella ai Georgofili a Firenze; c’è la conoscenza e le mille conversazioni con magistrati e investigatori, per fortuna non tutti finiti morti ammazzati; c’è il paziente spulciare migliaia di pagine di verbali e deposizioni di imputati; gli incontri e i colloqui con collaboratori di giustizia che con lei si “aprono”, le udienze dei processi seguite, comprese le apparentemente inutili. Questo libro è “figlio” di vicende seguite e vissute con scrupolo e vera passione civile e umana.

   Prima di chiudere, nella tragedia un richiamo a un’analoga tragedia, quella di Rita Atria, anche lei figlia di mafiosi. Si affida, nella sua dissociazione dalla “famiglia”, a Paolo Borsellino, per lei diventa come un padre. Quando apprende che il magistrato è stato ucciso, a sua volta si uccide. La madre di Rita, per spregio, ne devasta la tomba. C’è un particolare, otto parole appena, che ignoravo, a pag. 109: “il prete aveva negato il funerale alla suicida”. Per un’associazione stramba il pensiero è andato al cardinale vicario di Roma Camillo Ruini, che nega i funerali religiosi a Piergiorgio Welby. Spero che Ruini e quel sacerdote (non ci giurerei), provino infinito rimorso per quel loro divieto. Questo solo per dire delle tante suggestioni che provoca “Ninna nanna”.

“Ninna nanna”

Di Rita Mattei, All Around edizioni

Prefazione di Francesco La Licata

Postfazione di Girolamo Lo Verso

Pagg.411, euro 18


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