A cinque anni dalla strage jihadista di Charlie Hebdo, il Mondo si regge sul baratro

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“Il silenzio è tutto il nostro terrore
c‘è riscatto nella voce –
ma il silenzio é l’infinito.
Per sè non ha volto”.
Prendiamo a prestito i versi di Emily Dickinson per esprimere la sensazione di sconforto che si prova di fronte all’oblio in cui si tende a relegare l’attentato alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo e a all’Hipercacher di Vincennes, che causò la morte di 17 persone e fatto precipitare la Francia nel mirino del terrorismo radicale islamico, nonchè a mettere sotto minaccia la libertà di stampa e di opinione. Quella orrenda mattina del 7 gennaio 2015, dopo la pausa festiva, in un freddo inverno parigino, con il cielo plumbeo che si confondeva con i tetti color ardesia, un commando jihadista entrò nella redazione di Charlie, in rue Nicolas Appert, non lontano dalla Bastiglia. Un luogo simbolico per Parigi, seppure le prigioni non esistono più, se non nelle stampe antiche, sostituite dalla modernità di una piazza ritrovo di ogni manifestazione contro l’abuso del potere. Luogo di memoria storica della Rivoluzione contro l’Assolutismo, che introdusse “l’Esprit Republicain” e cambiò le sorti del mondo Occidentale, secondo i principi di “Libertè, Egalitè, Fraternitè”.
Fu come se si fosse aperto il vaso di Pandora, in quella giornata che ricordo con angoscia indescrivibile, trovandomi per caso a12 minuti di cammino da quell’inferno. Fu come passare dall’inverosimile inimmaginabile alla crudezza della realtà, in un lampo. Regnava la paura e la sensazione di trovarsi all’interno di un film. Ma le grida, il rumore assordante degli elicotteri, delle sirene delle ambulanze, il fuggi fuggi delle persone, i blocchi immediati delle strade adiacenti, i cordoni delle forze di polizia, la disperazione unita alla consapevolezza immediata, che si era voluto tacitare per sempre una voce libera, fuori dal coro, furono una scheggia infilzata nel cuore Come frammenti di miriadi di proiettili sparati all’impazzata dai kalashnikov dei terroristi, che oltre alle persone volevano sopprimere il pensiero; tradotto nell’alfabeto colorato e trasgressivo della satira ,contro ogni conformismo, per farsi beffa del potere illiberale e della negazione della Laicità dello Stato, pilastro della Democrazia. Dopo un minuto e mezzo, ma sembrò un’eternità, di spari senza tregua, nella stanza restarono solo pozze di sangue, da inzuppare intere risme di carta, appunti, disegni, scalette di lavoro di una composita redazione e i corpi dei giornalisti devastati, a pezzi e riversi ovunque, insieme a quelli dei feriti fra le urla disperate.
Da quel momento in tutta Europa iniziò una progressiva escalation del terrore, con un numero imprecisato di attentati, mattanze, orrori, corpi dilaniati e mutilati per sempre. Dal 2004 ad oggi ci sono stati nell’UE oltre 500 morti e migliaia i feriti. Un’atroce contabilità di morte che potrebbe essere tragicamente aggiornata in un prossimo futuro. Inutile vivere di illusioni fasulle, purtroppo!
Ma mai bisogna cadere nel diabolico tranello, anche mediatico, che non esiste scampo all’odio e alla morte; alla fine sarà sempre la vita a vincere contro la barbarie. E se il vento di pace non spegnerà i mille focolai di guerra e la follia dei potenti, senza cuore e cervello, sarà la fine dell’Umanità.
Dopo cinque anni di inchiesta, di processi verbali e di intercettazioni telefoniche, finalmente si è fissato l’inizio del processo in tribunale, fra maggio e luglio prossimi. Il “Dossier Charlie”, simbolo di una giustizia impegnata sul fronte dell’antiterrorismo islamico, resta tuttora un enigma con molti fili intrecciati saldamente fra loro, ancora del tutto da districare, e una rete di complicità internazionale non facile da decodificare. Saranno 14 gli imputati alla sbarra. Il disegnatore e giornalista Riss, di 52 anni, attuale direttore del settimanale, e uno degli 11 redattori scampati alla strage, restati gravemente feriti, vive ancora sotto scorta e affida alla scrittura la sua terapia ricostruttiva di una vita spezzata.
Nel suo libro “Un minuto e quarantanove secondi” si confessa, apre la sua anima e i suoi ricordi, anche per superare il trauma di quel giorno, che ha segnato la sua vita e violato tutto il mondo dell’informazione. “Combatto quotidianamente contro il dolore fisico e psicologico”, dice, “rincorso dal terrore di quei momenti, circondato dai cadaveri dei miei amici, diviso fra senso di vuoto e ossessioni. Scrivere mi aiuta a mettere ordine nei pensieri, a mettere nero su bianco, c’è tanto da dire quando si sono vissuti drammi devastanti: c’è anche troppo da raccontare. I miei compagni di scrivania non ci sono più, posso solo ricordarli intenti al loro lavoro, legati dal fil rouge della nostra avventura intellettuale di anni e anni vissuti in empatia”.
Il settimanale è tuttora minacciato, ma Riss ha deciso che continuerà, forte del suo humor noir, a tenere alta la memoria dei suoi compagni. A mantenere la barra dritta dell’impegno di una satira che si serve del sorriso per veicolare notizie, accadimenti, denunce di mistificazioni e di fake news, spesso al servizio di poteri occulti. Ricordiamoli questi disegnatori di parole, che usavano l’inchiostro dell’immaginazione per disegnare i loro pensieri, sorretti dalla loro passione e dagli ideali puri dell’indipendenza e della laicità.
Ricordiamoli allora: Cabu, Charb, Wolinski, Honoré, Tignous, divulgatori di letteratura disegnata, e insieme a loro gli editorialisti Bernard Maris ed Elsa Cayat. Non erano dei blasfemi, come la parte più oscurantista della società li ha definiti. La loro “insolenza” era un codice comunicativo contro l’arroganza del fondamentalismo religioso che stravolge il diritto degli Stati a tutelare i cittadini attraverso le garanzie delle leggi e del diritto, in nome della reciprocità e del rispetto.
Non erano dei conformisti ipocriti, erano persone coraggiose e coerenti, non si curavano delle minacciose avvisaglie, parole senza senso per loro, perché si sentivano protetti dall’amore per la libertà, dalla fiducia nell’uguaglianza e nella difesa dei più deboli, in linea con la tradizione dissacrante della satira ottocentesca francese. Credevano nella “Ragione”, madre di ogni differenza e identità, fondate sulla parità. Wolinski era il vecchio della “Bande dessinèe”. Per lui Etica ed umorismo coincidevano, falso e vero non erano dogmi, ma sfaccettature da svelare con l’arma della leggerezza. “L’ironia”, sosteneva, “non contiene mai elementi di luridume, di offesa gratuita, perché mette a nudo le menzogne, gli inganni della propria epoca storica; ridere è l’arma che può smitizzare la falsità dei re nudi”. “Noi non siamo uomini in ginocchio”, era solito dire Charb, consapevole della difficoltà di vivere in un mondo ideologizzato e imbarbarito, frammentato e contrapposto, ma il suo sguardo non smetteva mai di guardare alla concretezza del quotidiano, alla fatica di vivere, alla demistificazione dei propagandisti dell’islamofobia “che fa il gioco dei razzisti”, usando i popoli come eserciti nemici, negando i loro bisogni primari e comuni.
Per Cabu era l’arte del disegno a far riflettere, l’umorismo a mettere in discussione le certezze assolute. Per Lui la “Commedia Umana” di Balzac era sempre un’attuale fonte di ispirazione. Il disegno netto di Honorè, uomo dolce e raffinato, metteva in evidenza i colori sbiaditi della vita; la sua grafica magistrale riusciva a far risaltare le emozioni che per pudore siamo soliti trattenere Ci sollecitava ad uscire dal guscio, ad aprirci verso l’altro. Per Tignous la vita era un concentrato di amicizia e matite colorate, lo sguardo rivolto agi umili, a quei figli di un Dio minore che popolano le periferie lasciate a se stesse da un Capitalismo feroce e senza freni. Lo disegnava in tutta la sua grassezza e volgarità, protervo contro i poveri, raffigurati invece come uomini minuscoli, divorati da denti di pescecani, come l’allegoria brechtiana, che presagiva la tragedia del Novecento. La strage di Charlie Hebdo ha segnato invece la frattura fra un mondo di possibile convivenza e tolleranza tra culture diverse e un altro dove la pietà e la comprensione sono morte.
E’ giusto non dimenticare questi artisti, questi difensori della libertà di stampa, questi “capitani coraggiosi” che hanno combattuto per noi tutti, afinchè la ragione critica non ci riducesse a trasformarci in numeri senza nome, nell’Universo privo di compassione e di considerazione per quei valori universali che valgono in difesa della civiltà.


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