Il Male addosso, riflessioni su ‘Il Signor Diavolo’ di Pupi Avati

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Esistono fenditure tra reale e irreale, tra l’oggetto e il suo riflesso, tra materia e deformazione onirica, e attraverso queste crepe le due dimensioni si osservano a vicenda. Nello spazio angusto e fuggevole della contaminazione reciproca agisce Pupi Avati, evocandolo e dilatandolo con un gioco di prospettive anamorfiche in costante movimento alternate a improvvisi nitori di tenebra o di luce, dove l’orizzontalità e la quiete sono sempre soltanto apparenti.

Insuperabile nel trasformare poche stanze in labirinto senza uscita, o nello stringere i muri addosso ai personaggi, fa approdare il giovane ispettore ministeriale Furio Momentè – inetto, buono solo a riordinare i faldoni – in un albergo veneziano la cui modestia si muta presto in elusività maligna e crogiuòlo di visioni aberranti.

Sembra di primo acchito un problema elettorale legato a un delitto e a dicerie di paese: nella provincia veneta del 1952 un ragazzino ne uccide un altro con la fionda credendolo il diavolo, anzi il Signor Diavolo, come gli insegna il sacrestano della Chiesa di Santa Maria della Neve – perché i cattivi vanno trattati bene, rispettare l’Avversario è il presupposto necessario per non venirne annientati -. La madre della vittima, aristocratica e influente, minaccia di far perdere le elezioni in Veneto alla DC di De Gasperi se l’inchiesta e il processo non dissolveranno le ombre che circondano lei e la memoria del figlio Emilio. Il fascicolo secretato del caso viene quindi consegnato a Momentè da un preoccupato sottosegretario affinché smussi e sopisca il pericoloso incidente con curiale riservatezza.

Ma già facendoci salire le scale del Ministero entro un’aria grigio-verdognola, malaticcia e linfatica – seguendo una linea che sembra avvitarsi dentro la conchiglia di una chiocciola -, e introducendoci in uffici altrettanto smorti e disadorni, Avati suggerisce la presenza di forze imperscrutabili.

La meditata struttura a scatole cinesi della vicenda mostra l’ispettore mentre legge in treno i verbali dell’istruttoria in alternanza ai lunghi flashback della deposizione del piccolo Carlo. In seguito rivivremo la genesi del crimine attraverso i racconti parzialmente coincidenti o contrapposti di tutte le persone coinvolte. Ed è un piacere inatteso vedere un gruppo di attori italiani, da Lino Capolicchio ad Alessandro Haber da Chiara Caselli a Gianni Cavina, capaci di attuare un sorprendente processo mimetico.

Il Male è ovunque e si manifesta nei dettagli, nella calza incongruamente smagliata della Signora Clara Vestri Musy, nel bagliore nero e crudele dei suoi occhi che traluce dal pizzo del velo luttuoso, nella tonaca polverosa dell’esorcista – febbrile ed enigmatico -, nelle bizzarrie fisiognomiche di tutti, nelle deformità goyesche di Emilio – zanne da verro, unghie biforcute e pelle spessa ricoperta di peli simiglianti alle setole -, nelle confidenze scellerate simili a soliloqui di anime perse, nelle leggende contadine, nelle nerissime storie a veglia, nel mito del nachzehrer, il non-morto masticatore cui si doveva inibire l’azione postuma sigillando la bocca (fra ‘500 e ‘600 con un mattone o delle monete, qui con dell’ovatta e una benda).

L’influenza maligna si propaga come un morbo, in forme oscene e grottesche o sciogliendosi nella rarefazione onnipresente del mondo liquido del Polesine. Il paesaggio sfuma fra lagune, argini, canali e approdi lastricati di mattoni, in un mescolìo di acque dolci e salmastre, mentre il continuo incresparsi della superficie, abbacinata di sole o specchio di nuvole, entra dalle finestre e diventa arredo, forma dell’anima, compagno segreto. Segreto come il fantasma di Paolino, l’amico inseparabile di Carlo, ucciso da un’improvvisa malattia trasmessagli da Emilio con un morso. E’ senza dubbio la sequenza più delicata e straziante del film quella in cui Carlo quasi supplica l’invisibile Paolino di fare insieme i compiti, ancora una volta, come se niente fosse cambiato; il momento liminale in cui una storia di demoni e mostri riesce a diventare meditazione accorata sulla solitudine dell’infanzia e sulla perdita.

A tratti emerge lo sdegno composto di Avati verso la presunzione della Scienza e l’inadeguatezza ipocrita della Chiesa, per non parlare della Legge e della Politica. Tutti ugualmente incapaci di comprendere, incluso Momentè, che ci sono enigmi impossibili da risolvere, ed entità che vanno lasciate nella prigionia del loro sepolcro. A meno che non le si voglia raggiungere in un buio spaventoso ed eterno.


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