La Memoria nella letteratura e la sottile linea grigia della banalità del male

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Una vittima, un sopravvissuto e un carnefice ci spingono ad indagare nella Memoria della nostra Storia, ancora non del tutto indagata.
“Da quando ho capito che sarei diventato scrittore, ho anche capito che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due consapevolezze siano nate in me contemporaneamente”, così scrive David Grossman, uno dei più grandi scrittori contemporanei, introducendoci alla conoscenza e alla magia di Bruno Schulz, ebreo polacco, autore de “L’epoca geniale e altri racconti”, ucciso nel 1942 con un colpo di pistola alla tempia da un ufficiale nazista.
Schulz era un uomo mite, nato nel 1892 da una famiglia di commercianti ebrei galiziani, trascorse una vita un po’ in ombra, da anonimo insegnante di disegno e applicazioni tecniche. La sua genialità poetica e letteraria era sconosciuta ai più. Si iniziò a parlare di lui nel 1934, quando, a 42 anni, pubblicò “Le botteghe color cannella”. Era “un uomo in punta di piedi” e quasi sussurrando cominciò a tracciare le parole dei suoi racconti minuti, punteggiati di sentimenti lievi come carezze. Ricordi di vita tratteggiati come acquarelli da guardarsi in trasparenza. Intrecci di realismo e mistero, dove i sogni dell’infanzia si incontrano con le speranze dell’età adulta, che attende coloro che aspirano ad “un’epoca geniale”, laddove il flusso della creatività e della passione cerca di opporsi al nichilismo foriero di sventure.
Schulz era un piccolo scrittore ebreo, preveggente, grazie al dono della sua poesia, del Grande Male che si sarebbe abbattuto da lì a poco per distruggere la sua arte e milioni di persone innocenti come lui. “I fatti comuni sono schierati nel Tempo, allineati lungo il suo corso come un filo. Là essi hanno i loro antefatti e le loro conseguenze, che si affollano e si susseguono senza tregua né interruzione. Ciò ha la sua importanza anche per la narrazione, la cui anima sono la continuità e la successione…Preoccupati, percorriamo l’intero treno degli avvenimenti, preparandoci ormai al viaggio…. Chissà, forse mentre ne stiamo parlando questa oscura manovra è già stata compiuta alle nostre spalle e noi viaggiamo ormai su un binario morto”. Ma, scrive Schulz, che fare di quegli avvenimenti “che non hanno il loro posto nel Tempo, perché si sono verificati troppo tardi, quando ormai l’intero Tempo è stato distribuito, suddiviso, ripartito, e che ora sono rimasti nell’aria, sospesi, senza dimora?”.
Schulz si chiedeva se il Tempo fosse troppo breve per contenere tutti gli accadimenti, e noi ci domandiamo se tanti di questi avvenimenti attendono ancora di essere riscritti con la penna dell’umana comprensione. Scrive ancora Grossman: “Ci si sofferma sulla vita soltanto quando la si sente fuggire via…allora sprofondiamo in noi stessi e realizziamo che qualcosa in noi è scomparso per sempre. Che non saremo mai come prima”. Leggere oggi “Le botteghe color cannella” e le altre pagine sublimi di Schulz è una consolazione, un rifugio dai nostri affanni. Lui ci ha lasciato l’incanto dei “granelli di zucchero e briciole di pane per irrobustirci, in previsione di un gelido e infinito inverno”.
Sì, perché d’inverni che gelano l’animo ancora dobbiamo essere preparati ad affrontarne!
Jean Samuel, francese, figlio di una famiglia di farmacisti della comunità ebraica di Strasburgo, incontrò nell’estate del 1944 ad Auschwitz Primo Levi. E fu subito amicizia. Jean, più giovane, fu soprannominato Pikolo. “Il m’appelait Pikolo” è il libro di memoria della loro profonda amicizia e della disperata guerra esistenziale per la sopravvivenza nel campo della morte. Dopo 36 anni di silenzio Jean-Pikolo, ormai padre e nonno apre le finestre del suo dolore, a lungo tenute sbarrate. “Mi sono spesso domandato perchè sono riuscito a sopravvivere alle condizioni spaventose della vita nel campo. Bisognava per prima cosa avere una buona salute e la giovinezza, resistere alle ossessioni della fame, della sete, intrecciare amicizie, il massimo dei contatti con i compagni, dare e ricevere, mantenere una grande apertura di spirito, vivere il quotidiano senza lasciarsi andare alla disperazione, rifiutare il passato e l’avvenire, e soprattutto restare umani, non divenire delle bestie o dei bruti come cercavano di farci diventare i nostri carnefici”.
Senza la consapevolezza della memoria storica non ci può essere civiltà. “Quando l’impossibile è stato reso possibile, è diventato il male assoluto, impunibile e imperdonabile”, così scriveva nel 1951 la filosofa tedesca, di origini ebraiche, Hannah Arendt nel saggio “Le origini del totalitarismo”, analizzando la “banalità del male”. Argomento che diventerà poi il filo conduttore delle sue cronache per il settimanale “The New Yorker” nel 1961, durante il processo al gerarca nazista Adolf Eichmann, a Gerusalemme. Successivamente, sviscerando le varie fasi del processo e ricomponendo le complesse interrelazioni fra le questioni morali, politiche e giuridiche, scriverà la sua famosa opera “Rapporto sulla banalità del male”.
Il caso Adolf Eichmann, che spalancò le porte della storia e gli occhi dell’umanità inconsapevole sulla Shoah, e che permise, dopo l’orrore e il silenzio assordante che ne seguì, di acquisire la piena presa di coscienza dello sterminio nazista, fa discutere ancora oggi.
Il processo di Gerusalemme (il primo interamente filmato) allo zelante, meticoloso tenente colonnello, responsabile della Sezione IV – B 4 dell’Ufficio centrale per la Sicurezza del Reich (RSHA), è stato ricostruito con imponente e sconvolgente abbondanza di documenti inediti, filmati, registrazioni sonore e foto, al Mémorial de la Shoah, a Parigi. Dopo oltre 50 anni, l’apparente normalità del male, che volontariamente si fa scegliere anche dalle persone comuni, quando l’assenza d’immaginazione e di pensiero offusca la percezione del sottile filo che divide il Bene dal Male, è ancora di tragica attualità.
“Facevo solo il mio dovere, conformemente agli ordini”, si difese Eichmann, l’architetto della Soluzione Finale, al dibattimento (dall’11 aprile al 15 dicembre ’61): “ero addetto a svolgere il mio lavoro da dietro una scrivania”. L’immagine anonima del grigio funzionario dalle labbra sottili, i rari sorrisi sprezzanti, gli occhi opachi sotto le spesse lenti, al chiuso della gabbia di vetro, che si riflette nelle foto e nei filmati, assume il valore di agghiacciante icona del conformismo e del cieco asservimento alle gerarchie, che si fa strumento inesorabile di sterminio.
Né Iago né Macbeth, tanto meno un moderno Riccardo III shakespeariano, ma un burocrate della morte, uomo mediocre e dedito all’ubbidienza, un gregario per vocazione, dall’itinerario umano emblematico. L’album di famiglia ce lo mostra bambino vestito da marinaretto, ragazzo in gita con gli amici, nel giorno del matrimonio, con il figlio sulle ginocchia. Poi le foto in divisa da SS, quindi con il poncho in Argentina, fra gli agenti del Mossad, all’arrivo in Israele. Le foto-segnaletiche, le impronte digitali, le immagini in cella, le pantofole scozzesi ai piedi, lo scrittorio pieno di libri. Eichmann, l’addetto alle espulsioni e poi alla deportazione del “popolo reietto”, si sentiva “liberato da ogni colpa, sollevato per non aver avuto nulla a che fare con lo sterminio fisico. Legato al mio giuramento di obbedienza, dovevo occuparmi solo dell’organizzazione dei trasporti”.
Il criminale nazista si definiva “un rotellina del grande ingranaggio: il meccanismo della distruzione”, diceva, “dipendeva dall’Ufficio centrale per gli Affari economici e amministrativi, non era compito nostro decidere dove mandare i trasporti, io ero un piccolo ufficiale subalterno”. Giocando con l’autoconsapevolezza della sua mediocrità di grado e di posizione sociale (famiglia piccolo borghese, cristiano-nazionalista, studi e professione incerta), riscattatosi quasi per caso nel ’32, aderendo alle SS, Eichmann usava frasi fatte e parole vuote, manipolava la realtà, arrivando a definirsi un’idealista kantiano, in risposta alle domande incalzanti dei giudici, che tentavano di arrivare alla Verità.
Ritornano in mente le parole di Hannah Arendt: “Il male non è mai così radicale, ma solo estremo, non possiede né profondità né dimensione demoniaca. Può ricoprire il mondo intero e devastarlo, precisamente perché si diffonde come un fungo sulla sua superficie. E’ una sfida al pensiero, perché quando penetra in profondità non trova nulla. Questa è la banalità. Solo il bene ha la profondità e può essere radicale”.
Alcune significative testimonianze dei 111 sopravvissuti all’Olocausto che per la prima volta sollevarono la loro voce, rompendo il muro di ghiaccio della diffidenza, furono un momento cruciale del processo. Come quella dell’avvocato Robert
Badinter (poi ministro della Giustizia col Presidente Mitterrand), all’epoca inviato del settimanale “L’Express”. Fu colpito dall’assenza di carisma dell’imputato (“uomo qualunque e affaticato, neutro, nullo, non un bulldog come il Goering di Norimberga”) e dalla monotonia quasi asettica del procedimento, condotto con solenne ritualità. “La commozione irruppe con la testimonianza di Leon Wellickzon-Wells”, inserito a 18 anni nel Sonderkommando numero 1005 del campo Janowsky, in Polonia, con l’incarico di far sparire qualsiasi traccia dei massacri, filtrando al setaccio le ceneri dei cadaveri per recuperare oro e gioielli, e poi spargerle nei campi come fertilizzanti.
Non solo un contabile, senza ombra di pentimento, è l’opinione dello storico inglese David Cesarani, autore di “A. Eichmann, anatomia di un criminale”, ma anche un complice attivo e consapevole dello sterminio. Figura chiave della “Soluzione finale” e archetipo della corruttibilità umana, di cui Cesarani ricostruisce come in un macabro mosaico i tasselli della vicenda personale, che si sovrappongono con lo scientifico azzeramento dei valori umani, operati dal nazismo, dentro cui ritagliarsi una nicchia esistenziale. Eichmann si diventa, forti di convinzioni antisemite e di disprezzo per chi si considera in qualche modo “diverso e inferiore”. Lui era mosso da “un’utopia: far sparire con qualsiasi mezzo, gli ebrei dalla Germania e dall’Europa, per ricreare una comunità nazionale tedesca”, stigmatizza lo storico: “Esperto d’emigrazioni, Eichmann divenne un combattente nella guerra contro gli Ebrei. La sua arma fu il genocidio. Ed è così che si diventa sterminatori”.


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