L’arte è rivoluzionaria

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Gli anniversari sono tanto un doveroso omaggio ad un significativo evento, quanto una metafora del tempo. La più importante suggestione dell’Ottobre della Rivoluzione russa riguarda proprio il tempo. In fondo, un secolo è poca cosa rispetto alla storia lunga, quasi un’inezia. E, tuttavia, quella stagione appare così lontana e persino rimossa –rispetto al mainstream dominante nelle culture di massa. Niente a che fare con la Rivoluzione francese, in fondo distante poco più di un altro secolo e non certo meno violenta o foriera di dolori. Quest’ultima rimane il riferimento d’obbligo della democrazia, mentre il 1917 è avvolto dal fatale velo delle tenebrose scene di morte. Senza accedere ad alcun sentimento di inutile e sbagliata nostalgia, e senza voler ridimensionare i drammi o l’autoritarismo illiberale dei cosiddetti ex socialismi reali degenerati in oligarchici capitalismi di stato. C’è da sottolineare, però, che la rimozione è stata totale, ivi comprese le tante abiure di Marx da parte di chi non ne aveva neppure letto i testi. Il motivo di tanta abiura sta –giustamente- nella critica profonda della mancanza di libertà, valore che viene ancor prima dell’uguaglianza; ma ha pure a che vedere con il terrore che  l’assunzione da parte del proletariato di un ruolo dirigente potesse inverarsi nell’occidente benestante. Se quello era il progetto conclamato, da Marx a Lenin, che non trovò realizzazione pratica, il suo fantasma ha continuato ad aggirarsi qua e là. Fu l’unica volta che si tematizzò il superamento dei confini della vicenda umana, come conosciuti e raccontati.

Il 1917 cambiò il corso delle cose e rappresentò la speranza, l’utopia positiva per milioni di donne e di uomini. L’anniversario è l’occasione per ripensare il concetto di rivoluzione, e pure il suo succedaneo di riformismo. Quest’ultimo ha tratto alimento proprio dalla conclamata impraticabilità della via della “rottura” e si potrebbe dire che il trentennio socialdemocratico seguito alla seconda guerra mondiale è riuscito ad avere successo tanto per la negazione della strada bolscevica, quanto paradossalmente per il baluardo silenzioso dei paesi dell’Est.

Uno dei tratti peculiari e rimossi della vicenda russa è il capitolo del cinema e, più in generale, dell’espressione culturale. Si è costruita un’immagine di comodo attorno agli approcci alle varie forme di arte da parte del ceto politico dell’ottobre, impropriamente dipinto come un raggruppamento di estremisti rozzi e facinorosi. Non era così, essendo quel variegato universo in gran parte costituito da élite  intellettuali, che volevano non a caso importare la rivoluzione “dall’esterno”. Ciò vale a maggior ragione per la questione culturale, frettolosamente circoscritta all’estetica del realismo. Il commissario del popolo (messo a capo del settore nel 1918, funzione mantenuta fino al 1929) Lunaciarskij sottolinea, infatti, come gli artisti d’avanguardia fossero i più allineati con la rivoluzione, mentre la vecchia guardia realista rimaneva nel complesso più bianca che rossa. Insomma, la propensione del vertice bolscevico, prima che la vulgata staliniana prendesse il sopravvento imponendo la retorica realista, era per il nuovo corso novecentesco: Malevic, Kandinskij, Rodchenko; fino all’immenso Majakovskij. La scossa attraversò il teatro, la musica, le arti grafiche. La “propaganda”  fu l’antesignana della pubblicità, che trovò impulso creativo con il New Deal di Roosevelt, rimanendo debitrice all’efficace sloganistica rivoluzionaria.

Il cinema si inscrive con una forza straordinaria in simile contesto. Anzi. Senza Eizenstejn e Vertov –così diversi e così uniti nella trasgressione dell’ordine borghese- il cinema e l’audiovisivo che abbiamo conosciuto (Hollywood in primis) non sarebbero stati le potenze che abbiamo conosciuto. Il cinema russo non è un fardello del passato o un bagaglio storico da celebrare, bensì l’anticipazione della grandezza espressiva, letteraria, tecnica e semantica dell’arte-industria centrale del Novecento, considerata da Lenin la branca del sapere di maggior interesse. Non un’arte di pochi e per pochi, ma tutti avrebbero dovuto munirsi di una cinepresa per raccontare il mondo. C’era già molto, moltissimo di ciò che sarebbe avvenuto con la società dello spettacolo e dell’informazione. Ecco, la “Corazzata Potemkin” deve vivere una nuova giovinezza, contro grotteschi luoghi comuni che ne hanno segnato, offuscandola, la memoria.

Convegni, libri e saggi sull’Ottobre ci parlano della modernità e delle sue aporie, non dell’arretratezza. Dobbiamo ringraziare i maestri di quell’epoca, che riuscirono ad innovare la produzione culturale: non per piaggeria verso il comando del partito, bensì per affermare che la rivoluzione ha bisogno dell’arte.

Il sogno dell’avanguardia durò per un periodo troppo breve, travolto dall’incubo staliniano. E però i semi gettati hanno attraversato stagioni e generi, sperimentazioni e pratiche diffuse. E si rintracciano ancora oggi, nell’era digitale. Forse, senza quelle mirabolanti “tecniche del montaggio”, l’idea della Rete, della crossmedialità, degli ipertesti non sarebbe nata con un bagaglio teorico tanto vario e sofisticato. La vecchia talpa ha scavato nei bit e nei pixel.

Anzi. Ora che le tecniche procedono velocissime, fino a scomporre e a ricomporre la scena dell’immaginario, rileggere il passato senza sciocchi preconcetti è essenziale. Questo tempo post-novecentesco ha bisogno di riconnettersi con i punti alti della storia, per poter capire il presente e il futuro. Se si rilegge il passato, si trovano molte più cose di quanto una memoria liquida e leggera vogliano supporre. Ci si cimenti con la verità.


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