Brasile nel limbo

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Il Brasile precipita nel limbo e trascina con sé un bel pezzo del futuro prossimo sudamericano. Il processo deciso dal Congresso di Brasilia contro la Presidente Dilma Rousseff, accusata di aver manipolato il bilancio dello stato per mascherarne il pesante deficit, apre una lunga parentesi istituzionale, economica e politica che per le dimensioni della sua economia (l’ottava del mondo) coinvolge gli interessi dell’intero subcontinente. E ne sottolinea per tutti il mutamento di orizzonte.

Dilma è immediatamente sospesa dalle sue funzioni per 180 giorni. Entro questo periodo verrà giocata una triplice partita: per la sorte politica della Presidente, per un taglio drastico della spesa pubblica e per uno non meno rilevante nel costo del lavoro. Una ricetta di austerità alla greca, che provocherà non meno bruschi contraccolpi in tutto paese. Manifestazioni di piazza sono in atto in alcune tra le maggiori città, tra cui Brasilia, San Paolo e Porto Alegre.
Un preannuncio di condanna per la Presidente è già nell’esito del voto: laddove per incriminarla era richiesta una maggioranza semplice, pari a 41 voti degli 81 senatori, i favorevoli sono stati 55, ovvero uno oltre i due terzi richiesti in sede di conferma della sentenza. E del resto l’accanimento su un’accusa che la maggior parte dei giuristi anche dell’opposizione hanno giudicato debole e costituzionalmente controversa, ha lasciato intendere fin dall’inizio che battaglia contro Dilma va ben oltre la questione giuridica.

C’è non soltanto la volontà di chiudere una fase politica marcata dalle importanti riforme sociali portate dal Presidente Lula, bensì anche quella di deturparne per sempre l’immagine. Celebrato per anni come una specie di governo-prodigio da governi e stampa europei e degli Stati Uniti, dalla Banca Mondiale e dal fondo Monetario Internazionale, l’ex presidente Lula viene risucchiato adesso nella voglia di rivincita che perseguita la sua protetta. Più d’una delle dichiarazioni di voto tanto alla Camera quanto al Senato di Brasilia lo hanno detto esplicitamente.

I prossimi 6 mesi saranno tempestosi. Ad assumere il governo sarà il vice della Presidente Rousseff, Michel Temer, una delle eminenze grigie della vecchia nomenklatura politica brasiliana. Così come la metà del suo partito, l’eterogeneo e centrista Movimento Democratico Brasiliano (PMDB), quando ha capito che c’era la possibilità di succederle, non ha esitato a schierarsi con l’opposizione. E adesso tenterà in ogni modo di resistere alla guida del governo fino alla scadenza del mandato presidenziale, tra 2 anni.

Compito arduo, però: poiché a questo punto sia pure con opposte intenzioni, tanto il Partito dei Lavoratori (PT) di Lula e Dilma quanto quello sconfitto nel 2014, il Partito Socialista Democratico Brasiliano (PSDB) di Aecio Neves, anch’egli indagato nello scandalo delle tangenti dell’ente petrolifero di stato (YPF), puntano invece a elezioni anticipate. E dichiarano -unico ma significativo punto di coincidenza- che solo il voto popolare legittima un governo.

A Temer lasciano volentieri il lavoro sporco, se vorrà farlo: ridurre il deficit, aumentare tasse e disoccupazione. Compagni e alleati di partito appena rientrati da Washington gli assicurano che ha il visto buono della Casa Bianca e -ciò che ormai più conta- di Wall Street. Ma per corrispondere al credito ricevuto ha dovuto immediatamente rimettere le mani al governo appena concordato e già noto, cambiando il ministro della Difesa (sgradito ai militari in quanto troppo giovane: solo 36 anni) e quello dell’Industria (per l’opposizione dei grandi gruppi che ne hanno contestato la competenza).

ildiavolononmuoremai.it


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