L’uomo che visse tre volte

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Erano amici Enrico e Amedeo. Di quelle amicizie che durano per sempre. Amici come lo possono essere due che hanno fatto tante cose insieme. Cose appassionanti. Cose per cui si rischia la pelle. Cose che tatuano nel cuore la parola “Compagno”. Amedeo era più grande. Era nato in un’epoca buia, quando la Prima Guerra Mondiale era cominciata da poco. In campagna, in mezzo al niente e campi di grano. Da due mesi aveva sposato Iole, compagna di scuola di Enrico, che era stato testimone al loro matrimonio.

Enrico aveva sempre il sorriso stampato sulla sua bella faccia. Dov’era lui, era festa. Era di una famiglia genericamente cattolica e per il suo carattere aperto e gioioso gli volevano bene in tanti. Era diventato partigiano quasi da bambino e la politica per lui era un modo di esprimere generosità, freschezza e spontaneità.

Faceva caldo il 27 agosto del 1950 a Ponticelli, una frazione di qualche centinaia di abitanti a 6 chilometri da Imola. Il mondo sembrava lontano: da pochi mesi, era scoppiata la Guerra di Corea, proprio quel giorno – ma chissà se qualcuno se ne sarebbero accorto in quel paese sulle rive del Santerno – si sarebbe suicidato Cesare Pavese. Quegli stessi giorni erano particolarmente intensi per il mondo cattolico: i preti, anche in quel fazzoletto di terra tra Romagna ed Emilia, erano infervorati per l’approssimarsi della chiusura dell’anno giubilare e per la pubblicazione della XIX enciclica del Papa Pio XII dal titoloHumani Generis dedicata alle «false opinioni che minacciano l’integrità della dottrina cattolica». Si trattava di un documento importante che affrontava il tema dell’esoterismo e del satanismo. Il diavolo, infatti, veniva talvolta affiancato al famigerato decreto del Sant’Offizio del 1 luglio 1949, noto come la “scomunica dei comunisti” (Qui il testo integrale).

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Faceva caldo quella domenica a Ponticelli, anche poco dopo l’alba. Enrico e Amedeo si erano alzati presto: erano già tutti indaffarati. Era il gran giorno. Nella piazza del paese, dalle 4 del pomeriggio fino a notte fonda ci sarebbe stato l’appuntamento a cui stavano lavorando da giorni: la Festa de l’Unità. Si videro appena dopo che il bar del paese aveva aperto per prendere un caffè. Amedeo sarebbe andato a fare il solito giro della domenica: casa per casa a diffondere l’Unità e poi sarebbe corso in piazza a dare una mano per gli ultimi ritocchi: dovevano essere pronti i chioschi per la vendita di vino, pizza fritta e panini; doveva essere sistemata la Ruota della fortuna e lo spazio per il tiro degli anelli alle bottiglie: Anche la pesca era uno spazio fondamentale per raccogliere soldi per finanziare il Partito. Ma soprattutto doveva essere una serata di divertimento e di festa per tutti.
Enrico invece aveva rimediato un Furetto (un ciclomotore della IsoMoto che non godeva di molta fortuna sul mercato), che aveva un aspetto già scassato, nonostante non fosse vecchissimo: ma a forza di essere usato ogni giorno per molte ore nelle strade bianche e piene di buche tra la Vallata del Santerno e la bassa imolese dimostrava già molti anni. Era contento, eccitato, perché aveva appuntamento con Riccardo, che portava da San Marino i fuochi artificiali che avrebbero reso la fine della serata meravigliosa, lasciando tutti quelli che guardavano in alto a bocca aperta.
Faceva già caldo quella mattina. Ma come due fratelli erano contenti. Più che affiatati: complici. Facevano la cosa che più piaceva loro: organizzare nel concreto una cosa che faceva stare bene le persone, tanta gente sarebbe arrivate da Fabbrica, Codrignano, Linaro, dalla Marana, dallo Sbago… da tutte le località della campagna attorno.
Faceva già caldo quando si salutarono. Non ci fu nessuna cerimonia: si sarebbero rivisti di lì a poche ore. Era normale.
Enrico partì con quel motorino lento e pernacchiante. Doveva fare molta strada e soprattutto, dopo, dovevano tornare in due su quel trabiccolo. Ore dopo incontrò Riccardo, che aveva fatto lo sminatore e per il Partito aveva imparato ad gestire le serate pirotecniche nelle Feste de l’Unità della Romagna, che cominciavano a diventare numerose e sempre molto partecipate. Non si erano mai visti, ma era facile individuare uno in stazione a Forlì con un sacco in spalla sotto la pensilina, con la sigaretta in bocca, appoggiato al muro, all’ombra. Si salutarono e sistemarono il sacco tra il manubrio e la sella e Riccardo prese posto sul portapacchi. Non era una situazione comoda, ma piano piano sarebbero arrivati.

Faceva caldo sulla via Emilia e il rumore del motore impediva anche di chiacchierare. All’imbocco della Strada Montanara dopo ore di viaggio si sentiva una strana puzza di olio bruciato. I due erano tranquilli: ormai mancava poco. Passarono l’ospedale di Imola, costeggiarono il canale proseguirono sulla strada costeggiando il rudere della villa sulla destra, un posto bellissimo, con quei pini che lo rendono dolce e delicato che fa sempre venir voglia prima o poi di andare lì e rimettere a posto tutto per farne un posto da favola. Oggi è come allora.

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Il boato lo sentì bene anche Amedeo. Faceva molto caldo quel pomeriggio, ma si sentì gelare il sangue. Non sapeva cosa fosse successo ma cominciò a correre sulla Strada Montanara e fu tra i primi ad arrivare sul luogo dello scoppio. Vide il suo compagno a terra, rantolante: tra la polvere e il sangue. La scena era terrificante, per certi versi simile ad un momento che avevano vissuto insieme quando erano partigiani e le esplosioni erano di bombe e mitragliatori. L’uomo si avvicinò all’amico. Gli accarezzò il capo e cercò di calmarlo, di consolarlo, di fargli coraggio. Dopo un tempo che apparve infinito arrivarono i soccorsi e portarono Enrico in ospedale ad Imola.

Ad Amedeo era già chiaro quanto la situazione fosse disperata. Con la sua bicicletta faceva avanti indietro da Ponticelli all’ospedale di Imola: pochi chilometri ma fatti a tutta per provare a scaricare la tensione. Era nell’anticamera della stanza quando arrivò Veraldo Vespignani (qui si può sentire la sua voce in un brano della lunga chiacchierata che facemmo vent’anni va). Enrico tutto sommato era lucido, nonostante le massicce dosi di morfina che attutivano il dolore. Quando vide il sindaco addirittura si preoccupò di non essere troppo in disordine e con una mano fece per sistemarsi i capelli. “Sindaco. Come mi dispiace… La nostra festa… Avrei voluto che fosse bellissima…”
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L’amico era di nuovo lì la mattina dopo quando quel ragazzo che avrebbe compiuto 24 anni esattamente il mese dopo, dormiva ancora e da quel sonno non si sarebbe più svegliato.
Il momento della perdita è anche quando le persone più coinvolte si danno una scossa, mettono tutta l’energia possibile nel sistemare i particolari. E’ quando si affrontano tutte le cose pratiche per evitare di fermarsi a pensare. Amedeo parlottò con i compagni della sezione e insieme decisero di andare dalla famiglia. “Lo sapete – disse rivolto soprattutto alla madre – Enrico avrebbe voluto che del suo funerale si occupasse il Partito e avrebbe voluto che fosse un’occasione per i compagni di ritrovarsi in piazza con le bandiere rosse e i garofani”. La madre rimase perplessa, tutti i funerali della famiglia erano sempre stati fatti in chiesa. Parlò con il marito e alla fine senza entusiasmo accettarono la proposta.
Faceva caldo il pomeriggio del 30 agosto 1950 a Ponticelli dove le persone a migliaia si ritrovarono per salutare Enrico Farolfi. Fu una manifestazione di popolo imponente. La politica, la passione, il dolore si mescolarono al rispetto per una persona che si faceva voler bene.
Ecco l’episodio triste, drammatico, doloroso poteva essere finito qui. Ma anche in un remoto paese della bassa valle del Santerno “la storia non ha nascondigli” e il dolore delle persone a volte non è sufficiente, deve aggiungersi qualcosa.
La scena del secondo finale di questa vicenda si svolge la domenica 4 settembre 1950 alla messa nella chiesa di Ponticelli nel momento dell’omelia. Il sacerdote – secondo quanto mi è stato possibile ricostruire – parla dell’incidente, del lutto per la scomparsa di un parrocchiano, del dolore della famiglia e punta l’indice su quell’uomo che ha convinto la famiglia a non svolgere la funzione religiosa, un uomo mandato dal demonio. “Che quell’uomo, già scomunicato in quanto comunista, possa essere dannato!”
Amedeo Caprara era mio padre e oggi, 18 febbraio 2016, mentre pubblico questo post, avrebbe compiuto 100 anni.

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