C’è un disagio profondo nella destra di governo ogni volta che si parla di memoria. Lo si è visto con chiarezza nelle parole della ministra Eugenia Roccella al convegno dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, quando ha definito le visite ad Auschwitz “gite”. Gite, come se si parlasse di una giornata scolastica qualunque, come se la Shoah fosse un capitolo chiuso da sfogliare con leggerezza. Poi ha aggiunto che quei viaggi sarebbero stati usati per “insegnarci che l’antisemitismo è fascista e basta”, cioè per dire che la memoria della persecuzione sarebbe stata strumentalizzata, politicizzata, trasformata in ideologia. Quella frase contiene due gesti insieme: la riduzione e la rimozione. Riduce un rito civile a un passatempo, e rimuove la responsabilità storica del fascismo italiano nell’antisemitismo di Stato, nelle deportazioni, nella collaborazione con i nazisti. È il modo in cui una parte della destra di oggi prova a liberarsi da un’eredità ingombrante, fingendo che ricordare significhi “fare politica” invece di mantenere fede alla storia. C’è poi un contesto più ampio che spiega il clima in cui maturano certe parole. Alcuni mesi fa il Museo di Auschwitz-Birkenau ha vietato a una delegazione dell’IDF di entrare con bandiere nazionali, richiamando le regole del luogo e la necessità di evitare manifestazioni non coordinate. L’episodio è stato letto da settori della destra israeliana come un torto politico. Dopo Gaza, con il carico di stragi e distruzione che ha segnato il discorso pubblico, quel contenzioso ha moltiplicato le frizioni e ha reso possibile che, persino in un contesto UCEI, si normalizzino parole che fino a poco tempo fa avrebbero suscitato uno scandalo immediato. Dentro questo slittamento la memoria perde statuto etico e diventa terreno di conquista. Qui l’Italia ha una responsabilità aggiuntiva. La destra oggi al governo proviene da una tradizione che ha attraversato MSI e AN, fino a Fratelli d’Italia, e quella storia viene da chi nel 1943 collaborò attivamente alle deportazioni. In assenza di un confronto pieno con quella eredità, la tentazione di ridurre i viaggi della memoria a rituale ideologico trova spazio e copertura. Le parole di Liliana Segre lo ricordano con la precisione che serve. «La memoria della verità storica fa male solo a chi conserva scheletri negli armadi». È il punto. Il dolore non è in discussione, lo è il rapporto tra verità e responsabilità. E ogni volta che si prova a spostare il discorso sull’“uso politico” del ricordo si tenta di alleggerire proprio quella responsabilità. Per questo le frasi di Roccella non possono esaurirsi in una polemica di giornata. Sono un casus belli per la Commissione Segre e per il dibattito pubblico. Qui non c’è solo revisionismo, c’è un negazionismo di nuova generazione che non nega i fatti ma li svuota, li relativizza, li piega. Difendere i viaggi della memoria significa difendere l’idea stessa di una democrazia che nasce da un imperativo: mai più. E quel “mai più” non è un brand, è un vincolo. E vale per tutti!
