Mercoledì 25 giugno, al Tribunale di Roma, si tiene l’ennesima udienza del processo voluto dal ministro contro lo scrittore. Dopo diverse udienze disertate per “impegni ministeriali” – e quindi rinviate – finalmente, a quanto pare, il ministro si presenterà davanti al giudice per deporre.
Cinque anni fa, era il 2018, Matteo Salvini ha querelato Roberto Saviano su carta intestata del Viminale «in quanto ministro dell’Interno». Allora era ministro dell’Interno, oggi è ancora ministro ma delle Infrastrutture. Un atto duro, compiuto nella veste formale di capo del Viminale e non in quella di leader politico. Che mette il giudice nella scomoda situazione di dover dare torto o ragione non a Salvini ma al ministro dell’Interno (che peraltro Salvini non è più).
Nella querela per diffamazione a mezzo stampa sono elencate diverse affermazioni dello scrittore che, secondo Salvini, vanno oltre il diritto di critica e la fisiologica polemica politica. Su tutte, a scatenare l’ira di Salvini, è stata l’espressione “ministro della mala vita”, citazione di Gaetano Salvemini con cui Saviano lo aveva definito, replicando alla minaccia del ministro dell’Interno di togliergli la scorta: uno dei punti salienti della campagna elettorale del leghista, insieme alla criminalizzazione dei migranti e della solidarietà.
Insomma lo Stato che invece di proteggere chi è minacciato, ci mette il carico e lo trascina in tribunale.

«Non trovando nel Nord una solida e permanente maggioranza, Giolitti andava a fabbricarsela nel paese dei terroni». Queste parole di Salvemini sono la sintesi perfetta dell’espressione da lui coniata: «ministro della mala vita». Un’espressione nata durante le elezioni generali del 1909 quando Salvemini – candidato nella sua Puglia – deve difendersi dai mazzieri, che sostengono il candidato giolittiano Vito De Bellis con intrighi, legnate e colpi di arma da fuoco. Un’espressione che riassume tutte le responsabilità di una politica che – oggi come allora – “sbarca al Sud” per cercare voti, con il piglio coloniale di chi si confronta con i terroni solo per ottenerne qualcosa, e il beneplacito dei signori-baroni-politici di sempre, signorotti locali e gentiluomini d’ogni specie.
L’abitudine a fabbricare il consenso «nel paese dei terroni» l’Italia non l’ha mai persa. È ancora questo lo schema con cui la politica costruisce consenso, maggioranze, potere.
La Lega di Matteo Salvini ha dovuto trasformarsi da secessionista, anti-meridionalista e razzista a nazionalista e patriottica. Perciò, la sfida di Salvini è stata transitare un partito anti-meridionalista nelle regioni meridionali.
Operazione difficile, eppure è riuscita anche grazie allo spostamento dell’asticella dell’intolleranza un po’ più giù: dai terroni agli immigrati. Nella patria del capitalismo criminale, la criminalità viene attribuita all’arrivo dei migranti. E la retorica dell’ex anti-meridionalista, convertitosi al fervente nazionalismo, ha funzionato: “folgorato sulla via di Rosarno”, nel 2018 Salvini è stato eletto in Calabria.
La retorica neo-italica di Salvini è, ed è sempre stata, famelica di nemici: bisogna togliere i migranti dall’Italia, togliere i Rom dalle strade, togliere la scorta a Roberto Saviano. Ospite in una delle migliaia di apparizioni tv – Agorà su Rai Tre – decide di attaccare lo scrittore mettendo in discussione la sua protezione: «Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero», dice il ministro e vicepremier in tv. E aggiunge: «È giusto valutare come gli italiani spendono i loro soldi».
Ed eccoci arrivati alle parole “incriminate”: «Le parole pesano, e le parole del Ministro della Malavita, eletto a Rosarno (in Calabria) con i voti di chi muore per ‘ndrangheta, sono parole da mafioso. Le mafie minacciano. Salvini minaccia».
Le parole pesano, i processi pure.