In questi nostri tempi rapidi e furiosi, la scomparsa di un personaggio di virtù rinascimentali ma risolutamente schivo della celebrità, l’ex presidente uruguayano Josè Pepe Mujica, novant’anni e una biografia che suo malgrado ne aveva fatto un monumento già in vita, è un ammonimento destinato a passare in gran parte inavvertito. Ha frequentato avventurosamente il mondo fino all’ultimo respiro, oltre l’immaginabile, senza mai risparmiarsi: con la spontanea generosità dei patrioti del genere umano. Sentiva irresistibile l’anelito a quella libertà che è stata del latino-americanista Josè Artigas, padre-fondatore dell’Uruguay; e dell’internazionalista Giuseppe Garibaldi, entrambi strenui combattenti in difesa della dignità e del bene comuni contro il titanismo dell’uomo solo al comando. “Pepe è un poeta, ha dato tutto per riuscire a interpretare la capacità di riconoscere se stesso negli altri”, ha detto parlandone ancora al presente la moglie Lucia Topolansky, che l’ha accompagnato lungo la sua intera vita, dalla resistenza armata, alla tortura carceraria, ai più alti vertici istituzionali per volontà del voto popolare.
Di famiglia contadina, appena quindicenne, Mujica si affacciava alle proteste di strada contro il governo autoritario e di fatto militarizzato, per domandarne le ragioni ai manifestanti. Decidendo di aderire -poco più che adolescente- alla lotta armata del Movimiento Nacional de Liberaciòn Tupamaros, inspirato alla storica sollevazione anticoloniale del leader indigeno Tupac, a fine Settecento. Avido lettore, apprese il francese necessario per approfondire la conoscenza dei testi marxisti che gli passavano i compagni più preparati. Il suo ardore, non privo di tenera ingenuità, suscitava simpatia e fiducia. Gli fecero incontrare il massimo capo della guerriglia, Raul Sendic, un ex operaio dell’industria zuccheriera. La sua casa divenne una delle librerie del Movimiento e un nascondiglio di armi. Finchè fu ferito in un cobattimento con una pattuglia dell’esercito, riconosciuto e fatto prigioniero. Riuscì presto, però, a organizzare con altri detenuti politici una fuga divenuta clamorosa dal temuto penitenziario di Punta Caretas. Ma la fama nella clandestinità è un ulteriore nemico.
Gli scatenarono una persecuzione incessante, riuscendo a catturarlo nuovamente dopo qualche tempo. Processato senza difesa legale né appello, fu condannato a 15 anni di detenzione, in un carcere speciale. Chiuso 23 ore al giorno in un tunnel, in cui le celle avevano un tetto tanto basso da non permettere di muoversi in posizione eretta. La salute di Mujica, malgrado il vigore grazie al quale aveva potuto diventare un campione del ciclismo dilettante e una preziosa staffetta partigiana, ne ha risentito per sempre. Esce dopo 12 anni, con l’amnistia seguita alla restaurazione democratica, nel 1985. “Affrontare se stessi è l’impresa più ardua, ma anche la più proficua. Non c’è margine per nessun tipo di retorica. L’autoinganno, la superficialità, il compromesso non servono a placare il dolore. E neppure lo spirito di vendetta. Ti senti davvero solo. O trovi la tua autentica verità o muori, e se il cuore continua a palpitare ogni battito è una fitta lancinante. Ho imparato a non odiare”, ha spiegato più volte. Esaltando strenuamente la pratica della bontà: ”non dobbiamo rinunciarci mai…”.
All’attualmente trionfante iperbole del sempre più, ha opposto senza tregua quella dell’equa sufficienza, la bellezza del dare all’ansia del possedere. La semplicità del necessario al bulimico desiderio dell’accumulo di materialità. Ha sempre vissuto con la moglie Lucia nella loro modesta casa di campagna alla periferia di Montevideo, circondata da qualche filare d’uva malbec e animali da cortile, galline, anatre, conigli, cani in libertà. Tornandovi a dormire ogni sera dal centrale quartiere Prado, anche negli anni in cui erano titolari della Residencia presidencial de Suarez y Reyes. Eletto alla massima magistratura dello stato, ha destinato praticamente l’intero emolumento cui aveva diritto (intorno ai 9mila dollari usa) alla beneficienza. Limitando l’uso dell’auto ufficiale alle funzioni pubbliche, per guidare personalmente, lui o Lucia, una vecchia utilitaria o un motociclo quando si muovevano nei dintorni. Bisogna essere d’acciaio per mantenere una simile coerenza. E Pepe Mujica era un uomo in carne e ossa, dalla testa ai piedi (ma che testa!): l’ha confermato la settimana scorsa, facendo sapere che il suo corpo non ce la faceva più contro quel cancro che dall’esofago l’andava divorando inesorabile.