Dal carbone al silicio. La Rerum Novarum di Leone XIV

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La fumata bianca che ha presentato al mondo Leone XIV – l’agostiniano Robert F. Prevost – riapre il dossier che, nel 1891, Leone XIII intitolò Rerum Novarum: allora la macchina a vapore; oggi la macchina che pensa. La dottrina sociale della Chiesa che ha segnato, tra l’altro, l’impianto stesso della nostra Carta costituzionale (limiti della proprietà, valore del lavoro, giustizia sociale) si appresta a una nuova sfida, politica ma anche filosofica tenuto conto che Sant’Agostino è, in un certo senso, l’inventore dell’anima come ente immateriale, distinto dal corpo e destinato a durare oltre la morte. In De quantitate animae la definisce “esseità dotata di pensiero e ordinata a governare un corpo”. Questo dualismo, già presente in Platone, diventa con Sant’Agostino uno dei tratti fondamentali di tutta la civiltà occidentale.

Papa Leone ha anticipato un’enciclica sull’Intelligenza Artificiale e dovrà avventurarsi su sentieri inesplorati che presentano aspetti contraddittori e anche paradossali. Da quasi due secoli il pensiero occidentale si è incamminato lungo una traiettoria spiccatamente riduzionista: l’essere umano viene ricondotto ai suoi soli costituenti materiali, e l’anima – un tempo cardine della riflessione filosofica – viene degradata a semplice metafora o espunta del tutto dall’orizzonte ontologico.

E tuttavia, proprio mentre il riduzionismo dilaga, un inatteso dualismo riaffiora con vigore nel dibattito sull’intelligenza artificiale. Discutiamo, infatti, con fervore della possibile coscienza delle macchine pensanti, fino a ipotizzare che abbiano sensibilità e creatività attribuendo a entità di silicio quel principio immateriale che invece facciamo fatica a riconoscere nelle persone in carne e ossa. Così, la stessa istanza metafisica che abbiamo sottratto all’uomo viene sorprendentemente restituita a circuiti e algoritmi, rivelando tutta l’ironia – e forse la fragilità – della nostra epoca.

Non vi è dubbio che ChatGPT si presenti come un’entità che sfida le concezioni ontologiche tradizionali. Si ha l’impressione che questo chatbot pensante sia arrivato al cuore della res cogitans cartesiana, dove risiedono le idee innate, proclamando, sfacciatamente, che queste idee, di fatto, non esistano. Dal suo punto di vista, la provocazione è comprensibile. GPT è stato addestrato, infatti, partendo da una “tabula rasa” simile a quella immaginata da Locke e Hume, e non da un software preordinato a organizzare e ad elaborare i dati che riceve: le sue conoscenze, le sue competenze e il suo modo di argomentare sono il frutto di un apprendimento puramente empirico e induttivo, per cui ha imparato a distinguere un cane da un gatto solo osservando decine di milioni di cani e buscandosi uno scappellotto quando lo confondeva con un gatto. Si ha l’impressione che la materializzazione dell’IA stia incrinando i pilastri dell’anima di Sant’Agostino, dell’inconscio freudiano e dello Spirito hegeliano, al grido di: “Al diavolo la metafisica!”. E, come in una scena teatrale, si materializza il fantasma di La Mettrie, il filosofo settecentesco dell’Uomo macchina, che proclama la morte dell’anima: “un termine superfluo, privo di reale significato; una mente avveduta dovrebbe usarlo soltanto per indicare la parte di noi che pensa”.

Per arginare l’avanzata di un post-umanesimo in cui le macchine sembrano confondere i confini dell’umano, converrebbe invertire la prospettiva: invece di misurare quanta “umanità” ci sia in un algoritmo, chiediamoci quanta automatica prevedibilità si annidi ormai nei nostri stessi comportamenti. Se un sistema d’intelligenza artificiale riesce a simulare pensieri e gesti, è perché troppi modi di ragionare sono diventati ripetitivi al punto da poter essere codificati. Il pericolo, dunque, non è un computer che diventa creativo, ma una società che rinuncia alla propria quota di invenzione, di anticonformismo, di autenticità. Per scongiurare questo esito dobbiamo restituire una profondità reale al discorso pubblico: parole meno stereotipate, rispetto della complessità, scelte non dettate da graduatorie di gradimento. Solo così il calcolo tornerà a essere uno strumento, e non lo specchio, di un’umanità sempre più meccanica.

L’intelligenza artificiale si limita a riprodurre e amplificare i modelli presenti nei dati che le forniamo. Se quei modelli sono il frutto di abitudini, pregiudizi o convenzioni dominanti, potremmo scambiarli per leggi di natura solo perché li ritroviamo, confermati, nella risposta di un algoritmo. Il pericolo, quindi, è confondere ciò che è soltanto “statisticamente frequente” con ciò che è “universalmente vero”. Leone XIV ha tracciato la rotta: non calcolare quanta umanità abiti la macchina, ma sottrarre l’uomo al rischio di ridursi a ingranaggio.


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