Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio. Scrivere la Storia e le storie per farsi ponte

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L’ultimo libro di Igiaba Scego, è un memoir rivolto alla nipote Soraya in forma di lettera, ma dedicato a tutte le nipoti e i nipoti e alle giovani generazioni. Si tratta di un libro complesso, con una scrittura avvolgente, ripetitiva, che torna su temi ed episodi con lo stesso movimento faticoso e doloroso con cui si ritorna su ciò che ci accade, sui momenti difficili della vita, per comprenderli, interpretarli e poterli infine accettare come parte di noi. Assomiglia a uno di quegli arazzi, dai disegni astratti, sempre diversi, che la madre ha iniziato a cucire con l’uncinetto al suo ritorno in Italia, dopo il trauma della guerra in  Somalia del 1991- 92 : “Ogni giorno dopo la guerra ha sempre cucito. Ogni giorno, senza stancarsi. Sguardo piegato sul maro, mano precisa, attenta anarchica. Colori che fuoriescono dai polpastrelli come in un ballo in maschera. Lì, in quei cerchi concentrici, c’è il suo alfabeto”. Sì perché la madre, che è nata in un villaggio nomade e, in una delle sue tante vite è stata camelliera, ha poi imparato a leggere e scrivere, ma in seguito, per una serie di traumi, ha perso la padronanza dell’uso dell’alfabeto  ed ora si esprime così, attraverso il ricamo. Igiaba assume sua madre come Markhaati, testimone della storia del loro Paese e della diaspora che ne è seguita e se stessa come ponte, come colei che riuscirà a raccogliere, tradurre a parole la storia e l’esperienza che la madre finora si è limitata a ricamare.

Non è la prima volta che l’autrice affronta la materia autobiografica, che definisce piena di trappole  e amnesie, tanto che durante questa nuova incursione nella storia di sua madre e della sua famiglia si accorge di alcune incomprensioni e fraintendimenti in cui è incorsa in opere precedenti. La gestazione del libro è stata lunga, è iniziata durante la pandemia; ciò che l’ha incoraggiata è stato  condividere il suo progetto con il prof. Antonio Fanelli, docente presso l’Università La Sapienza e storico orale che l’ha spronata a continuare a intervistare la madre. Importante è stata anche la rilettura dell’opera del maestro del metodo della storia orale, Alessandro Portelli, che l’ha spinta ad addentrarsi sempre più nei “territori scivolosi ma appassionanti della storia raccontata dai suoi protagonisti, della storia tramandata oralmente”. Ciò che le stava a cuore approfondire era il discorso sul “trauma della guerra”, per questo affronta il dialogo tra generazioni, perché il trauma della guerra è un trauma condiviso, tanto che studi sulla Shoah hanno mostrato come il trauma si tramandi di generazione in generazione. Lei lo ha chiamato Jirro,  che in somalo significa “malattia”, ma per loro la parola ha un significato più vasto “parla delle nostre ferite, del nostro dolore, del nostro stress postraumatico, postguerra. Jirro è il nostro cuore spezzato. La nostra vita in equilibrio. La nostra vita in equilibrio precario tra l’inferno e il presente”. Dal Jirro non si guarisce facilmente perché è perpetuato dalla diaspora: “Siamo esseri diasporici, sospesi nel vento, sradicati da una dittatura ventennale, da una delle più devastanti guerre avvenute sul pianeta Terra e da un grosso traffico di armi che ha seppellito le nostre ossa, e quelle dei nostri antenati, sotto un cumulo di kalashnikov che dalla Trasnistria sono sbarcati direttamente al porto di Mogadiscio. Per annientarci”.

La Mogadiscio che avevano conosciuto i suoi genitori e lei stessa non c’è più, quella di adesso è stata ricostruita, gli archivi personali e storici sono stati distrutti. Per questo vuole col suo libro salvare la memoria, ricostruendola attraverso il racconto della madre, talvolta quello del padre, dei vari familiari e anche di lei stessa, che nonostante sia nata a Roma e si definisca “una afro – euro – politana Occidentale”, si sente una sorta di reduce di guerra, sebbene i veri reduci siano sua madre e altri membri  della famiglia . Il Jirro è qualcosa che mina lo spirito e il corpo di chi ne è colpito e racconta l’effetto devastante che ha avuto sui corpi  di diversi parenti. Il suo Jirro, almeno nella forma più dolorosa, si è manifestato in lei con l’inizio della guerra civile in Somalia e la partenza improvvisa e senza spiegazioni della madre per il suo Paese già in fiamme.  Igiaba ricorda  che aveva sedici anni il capodanno del 1990 e si preparava  a partecipare a una festa con i compagni di scuola, aggiustandosi alla meglio con un maglione della Caritas e un trucco improvvisato, quando la televisione annunciava che in Somalia era scoppiata la guerra civile. Lei lo scoprirà solo l’indomani e allora inizierà il suo Jirro che esprimerà a parole nella domanda ossessiva, alla quale cerca risposta ancora mentre scrive il libro, sull’abbandono della madre “ Perché mamma, perché sei andata a Mogadiscio? … Perché ti sei ficcata in una guerra civile che era nell’aria? Una guerra civile attesa, ovvia, sicura?”. Questo è anche un libro che parla molto del corpo e Igiaba racconta come lei abbia somatizzato il Jirro per anni con gravi disturbi alimentari e il peggiorare della sua vista, già debole, fino al manifestarsi poi del glaucoma. Parla della sua miopia, così densa di significati simbolici:  la visione confusa che ha quando toglie gli occhiali sembra corrispondere al suo faticoso arrancare dietro immagini di una storia, di una Somalia che non riesce ad afferrare “Davanti a me diventa tutto nebbia. Ma forse è nella nebbia  che si nasconde la verità”. E non si stanca  di cercare la verità in quel rapporto con la madre in cui si domanda se sia lei ad aver scelto la madre come testimone o la madre a scegliere lei come scrivana, ruolo che  ha assunto per la madre fin da piccola. Nei numerosi fili della trama del libro c’è anche quello della storia del suo amore per la lettura, per la lingua italiana e la sua scelta imprescindibile di diventare scrittrice.  Nello sforzo di ricostruzione di una visione della storia e del suo senso Cassandra è lei, ma Cassandra è anche il padre quando con la delegazione somala in visita al muro di Berlino negli anni Sessanta ha la visione di altri muri e altre macerie  che si sarebbero abbattuti sugli uomini nel futuro. Ma forse la sua è una “ famiglia – Cassandra”, come le ha scritto un’amica, perché “ ognuno di noi ha avuto la visione di una parte di catastrofe, ma abbiamo fatto di tutto per non credere ai nostri stessi occhi, alle intuizioni che ci piombavano addosso da ogni dove. Come se la realtà troppo brutale ci rendesse improvvisamente ciechi”.

Igiaba Scego ha molto da scrivere sulla Somalia e sulla sua famiglia, perché è una famiglia che ha avuto un ruolo nella storia del Paese. Il padre Omar Ali Scego è stato Ministro degli Esteri prima del colpo di Stato di Siad Barre nel 1969 e dopo di allora è cominciato il loro esilio in Italia e la loro difficile storia di immigrati.  Un tema importante che attraversa il libro è quello del colonialismo italiano. Uno dei capitoli più interessanti è quello sulla visita al Museo della Civiltà all’EUR a Roma e il racconto dello sforzo, compiuto da chi organizza oggi il vasto materiale conservato, di trasformare un museo della propaganda coloniale in una piattaforma decoloniale contemporanea. Scego racconta la ferocia e la violenza portata dal colonialismo italiano. Suo nonno era stato l’interprete del generale Graziani e aveva dovuto tradurre l’italiano del razzismo e della violenza. La penetrazione italiana in Somalia è stata fortissima per almeno tre generazioni che parlavano italiano e pensavano italiano, che era per loro una lingua tirannica in cui si nascondeva il Jirro. Ma adesso per una generazione, quella di sua madre e la sua, l’italiano è diventato anche la lingua degli affetti, dei segreti più intimi, la lingua che le completa nonostante le sue contraddizioni. Igiaba esorta la nipote Soraya, che vive a Monteal e parla inglese, a imparare l’italiano, che potrà diventare la lingua ponte per parlare con la nonna: uno dei problemi delle famiglie diasporiche è che i membri parlano lingue diverse. Per la storia del loro Paese e dello stesso nonno, interprete di Graziani, l’italiano è intriso di Jirro “Ma la motivazione che ti porterà  a studiarlo – scrive a Soraya –  sarà curare questa bella lingua un po’ ignara di sé. Una lingua che ha dimenticato cosa le è stato fatto. Tu la imparerai e la guarirai. D’altronde ho capito che anch’io la scrivo per guarirla. Per guarirmi”.

Nel discorso sul corpo c’è anche la storia di come la madre abbia subito le mutilazioni genitali, che Igiaba definisce manifestazione del patriarcato e non di una cultura. Racconta la straordinaria circostanza per cui la nipote Soraya ha recitato nel film “Fiore del deserto” interpretando la parte di Waris Dirie, modella e attivista che, come la madre, è stata nomade e ha subito le mutilazioni genitali: è come se la nipote avesse interpretato la parte della nonna. Durante il lungo dialogo con la madre Igiaba riceverà infine per la prima volta una risposta alla domanda  sul suo abbandono per correre nella Somalia in guerra, causa principale del suo Jirro, ma la risposta che riceve le appare inaccettabile, in contraddizione con gli stessi insegnamenti  che la madre le ha impartito e ha dunque bisogno di interpretarla. Per questo e per capire meglio la madre, deve, lei donna di quarantotto anni, affrontare il delicato discorso, spesso dimenticato, sulla menopausa: “Il delirio di andare in un paese in guerra e l’idea bislacca che le guerre si vincono sono pensieri che nascono anche da una menopausa che nessuno ha abbracciato”. Ma anche  il ripensare a posizioni  assunte da donne ucraine sulla scelta di tornare nel paese in guerra l’aiuta a inquadrare la scelta della madre che non riesce ad accettare. La sua personale posizione rimane quella del rifiuto della violenza: “Le guerre non le vince mai nessuno, hooyo (mamma). Le vincono solo le armi, il sangue, la morte, il pus, le lobby, i padroni, gli altri. Quelli come noi invece le perdono sempre … me lo hai insegnato tu, te lo sei dimenticata?”.

Mentori di questo libro sono James Baldwin e soprattutto bell hooks che cita fin dalle prime pagine, perciò manda alla nipote Sorya il suo messaggio d’amore: “Si può ritrovare l’amore solo se si abbandona l’ossessione del potere e del dominio sugli altri”. Poi aggiunge, rivolta alla nipote, ma anche a tutte noi “Sorella, la nostra intimità è politica. Sorella, la nostra intimità è rivoluzione. Sorella, la nostra intimità è la vita che il Jirro non avrà mai  … Siamo donne. Io sono una donna matura che si affaccia al lato nascosto della luna. Tu sei una giovane donna che quella luna l’ha appena calpestata. Insieme siamo la Via Lattea”.

Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, Bompiani, 2023

 


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