Benvenuta Africa

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Non era mai successo. Mai, in un Mondiale di calcio, una squadra africana era approdata in semifinale. Giustificato l’entusiasmo dei tifosi marocchini sparsi in tutta Europa. Di più: giustificato l’entusiasmo dei marocchini, perché il confine tra il tifo e l’appartenenza in questi casi si dissolve. Non tutti coloro che hanno affollato le piazze nelle ultime ore sono tifosi di calcio. Tutti però sono marocchini.

Non è la prima volta che il calcio assolve ad una funzione di riscatto. O meglio, si sostituisce al riscatto vero, quello che dovrebbe consentire agli “ultimi” di riprendersi la dignità spesso negata. Nello sventolio delle bandiere, nell’entusiasmo espresso nelle strade, negli abbracci in campo tra i giocatori si rivela anche la somma di umiliazioni e di dinieghi che fanno la storia delle migrazioni. In Italia si calcola che la comunità marocchina sia di 450.000 persone. Tante donne, uomini e bambini che hanno provato a costruirsi una vita migliore lontani dalla loro terra. Perché, nella loro terra, era moto difficile riuscirci. E per farlo hanno anche camminato per chilometri sulle spiagge italiane per offrirci mercanzie mentre noi, sdraiati al sole, ignoravamo persino quanto fosse profonda, nella cultura africana, l’arte del commercio.

Come spesso accade nello sport i più deboli sono quelli per cui si tifa con maggior trasporto. E’ successo anche per la nazionale del Marocco che gode ormai di diffusa simpatia. Ma non mancano coloro che storcono il naso infastiditi dalle rumorose manifestazioni di gioia. E c’è chi, come è successo a Verona, ne approfitta per l’ennesima ignobile “caccia” all’immigrato. Si scopre poi che i “valorosi” teppisti sono accumunati nell’estremismo di destra che si annida sempre più spesso anche nelle curve degli stadi, nuovi territori di proselitismo.

Tante bandiere rosse con stella verde. Ma anche tante bandiere della Palestina. Anche in campo, con l’attenta regia internazionale che tenta di nasconderle in nome dell’asetticità del calcio, della sua presunta “apoliticità”. La realtà dimostra quanto sia fallace ed antistorico questo tentativo. Lo è stato sin dai primordi. Il calcio è un’attività umana immersa nella vita e ne riflette tutte le contraddizioni.  Di più: le racconta.

Nella nazionale marocchina si nascondono straordinarie storie di calciatori formatisi alla scuola calcistica europea. Perché l’Europa, quando ha potuto, ha sfruttato il talento di questi ragazzi.

Emblematico il caso di Walid Cheddira, 24 anni, attaccante. I genitori sono entrambi di Béni Mellal e anche il papà di Walid è stato calciatore nelle leghe minori del Marocco.  Walid è nato a Loreto e gioca nel Bari, attualmente in Serie B. Cheddira è italiano, ma ha potuto scegliere. E ha scelto la nazionale del Marocco. Ha esordito con la maglia rossoverde in questo mondiale. Era il 6 dicembre, ottavi di finale contro la Spagna.

Appartenenza. Come quella del portiere Yassine Bounou giocatore del Siviglia che parla correttamente spagnolo e inglese ma che, durante le conferenze stampa in Qatar, ha deciso di parlare solo in arabo.

Spagna prima e Francia tra poco in semifinale. Le nazionali di due paesi che hanno giocato un ruolo importante in Marocco all’epoca delle colonizzazioni europee, prima dell’indipendenza ottenuta nel 1956.

Vivendo la storia calcistica di questo Marocco sembra quasi di entrare tra le pagine scritte dal Premio Nobel per la letteratura Abdulrazak Gurnah che, con fatica e senza rabbia, ci racconta dell’africa nell’epoca coloniale, delle sofferenze e della resistenza di una cultura secolare ignorata dagli occupanti.

Perché il calcio non è solo un gioco. E’ molto di più.


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