Saviano sotto processo per una querela della Meloni. Ed è la cartina di tornasole sulla libertà d’informazione in Italia

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Quello che inizia il prossimo 15 novembre non è il “solito” processo a un giornalista per diffamazione a mezzo stampa e purtroppo ce ne sono tantissimi e oltre il 90% finiscono con assoluzione o, ancor prima, con archiviazione. No, per una serie di ragioni è un processo diverso perché l’imputato è uno dei più importanti giornalisti italiani, Roberto Saviano, e la presunta parte offesa (oggi, non al momento della denuncia) è il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Un anno fa Saviano è stato rinviato a giudizio per le frasi pronunciate nel corso della trasmissione “Piazza Pulita” a dicembre del 2020 nell’ambito di un dibattito sui migranti e sulla gestione dei porti, in pratica una discussione perfettamente sovrapponibile alla situazione attuale. Il commento era sulla morte di un bambino e sulle frasi della mamma del piccolo; in quel contesto lo scrittore campano ha detto: “”Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: ‘taxi del mare’, ‘crociere’… viene solo da dire bastardi Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così?”. Già, il sottofondo era il dolore. Ma adesso il Tribunale di Roma è chiamato a stabilire se quel termine, “bastardi”, è stato diffamante per la Meloni. Saviano in una intervista a La Stampa ha detto che non si pente di quel termine e ha anche rivendicato il diritto all’indignazione “di fronte a un naufragio”, perché “le vite umane vengono prima di ogni strumentalizzazione o percorso politico più o meno severo, inflessibile, feroce, da Papeete o da pacchia finita”. A prescindere da cosa accadrà martedì, se ci sarà o meno l’udienza e comunque vada a finire il processo, questa storia ha il “merito” di riportare sotto i riflettori il tema delle querele per diffamazione e la loro forza intimidatrice, che le sta trasformando in un vero e proprio bavaglio per tutta la stampa. In aula  ci saranno anche osservatori del gruppo Case Italia e la vicenda viene considerata una cartina di tornasole sulla effettiva libertà dell’informazione in Italia anche ai fini della stesura della Direttiva comunitaria attesa per la primavera prossima. Direttiva che porterà il nome di Daphne Caruana Galizia, la giornalista uccisa da un’autobomba a Malta e i cui familiari hanno dovuto continuare a difenderla da decine di querele anche dopo la morte.

Roberto Saviano ha il “calibro” per difendersi dalla denuncia di un politico molto influente, il primo ministro in carica. Ma gli altri? Cosa accadrebbe se al posto dello scrittore sotto scorta per aver raccontato la ferocia del clan dei casalesi ci fosse un collaboratore precario dell’ultima tv o giornale del profondo sud (o nord) dell’Italia? Delle altre molte (troppe) querele e azioni civili contro i giornalisti si parla poco, non fanno notizia oltre l’ambiente ristretto dei cronisti di giudiziaria. Questa udienza invece può superare lo steccato del silenzio e può accendere i riflettori sul rischio che corre la democrazia in Italia quando nemmeno Saviano può più criticare le politiche governative sui migranti. E’ un argomento attuale. La scorsa settimana si è cercato accuratamente di tenere i giornalisti lontani dalle navi che avevano a bordo i migranti e anche dalle scalette da cui venivano fatti scendere coloro che non appartenevano al “carico non residuo”. Solo ai fini della cronaca va aggiunto necessariamente qualche dato sui soggetti che più querelano i giornalisti: appartengono a tre macro aree. Queste: criminalità organizzata, politica, grandi gruppi finanziari. Inoltre la quasi totalità degli amministratori pubblici procedono con incarichi legali pagati dalle amministrazioni che rappresentano, pertanto anche quando il giornalista viene assolto le spese dell’azione legale a suo carico vanno a finire sui bilanci pubblici. In questo modo, nei fatti, i cittadini pagano una tassa informazione.


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