Salvare il servizio sanitario nazionale altro che meno sanità e più sport!

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Dopo quasi tre anni di pandemia, quasi 180.000 morti, la riduzione dell’aspettativa di vita, l’aumento del 30 per cento dei decessi per il cambiamento climatico, arriva un candidato della Lega (campione sportivo, ma non conta) e chiede più soldi per lo sport e meno per il sistema sanitario nazionale. Mentre le persone aspettano anche giornate intere in una barella nei pronto soccorso, anche la leader di Fratelli d’Italia invoca più sport per tutti e non parla mai, proprio mai, di sanità. Il vecchio leader  dei populisti dal 1994 ha progressivamente privatizzato la sanità in Lombardia con le conseguenze che sappiamo sulla prima ondata di Covid, tanto lui si è fatto fare una succursale del S. Raffaele nella sua villa.

Al  netto degli errori fatti anche, e colpevolmente, dai governi non di destra negli ultimi due decenni, è tempo che le forze politiche che continuano a credere nella sanità pubblica combattano subito, in campagna elettorale, e poi in Parlamento, per potenziarlo e attuare la riforma prevista dal PNRR investendo tutto quanto già previsto e una quota aggiuntiva per il personale. Ne va della vita, insomma della pelle, degli italiani, cittadini e non patrioti.

Per questo ritengo utile pubblicare in questo pezzo, sia pure a stralci, il documentatissimo appello delle “Scienziate per la società”. Un appello che parte dalla considerazione che per la sanità pubblica bisogna spendere di più: l’Italia oggi spende l’8,8% del PIL contro il 9,9 della media europea.

Il Servizio Sanitario Nazionale italiano (SSN), nato nel 1978 con la legge 833, si basa su principi fondamentali come la responsabilità pubblica della tutela della salutel’assistenza sanitaria a tutti i cittadini senza distinzioni di genere, residenza, età, reddito e lavoro, ed il sostentamento tramite il finanziamento pubblico assicurato dalla tassazione. Il Servizio è organizzato con una medicina di base sul territorio per la gestione ordinaria e l’eventuale indirizzo a cure ospedaliere, e un accesso a Pronto Soccorso per le emergenze. La 833 ha anche introdotto due strumenti che hanno dato un contributo fondamentale alla salute pubblica: la prevenzione, per ridurre l’incidenza di patologie e così diminuire il costo della spesa sanitaria, e la riabilitazione, per permettere ai cittadini malati di raggiungere il miglior livello di autonomia e partecipare alla vita pubblica. Due concetti enormemente innovativi.

Non a caso, il nostro servizio sanitario è stato per molti anni uno dei migliori nel mondo. Oggi però la situazione è cambiata: gli sprechi prima, e le misure di spending review dopo, hanno depauperato il SSN che è andato in affanno. Nel 1992, con la formazione delle Aziende Sanitarie Locali (ASL), dipendenti dalle regioni, è cominciata la stagione delle restrizioni. Nel 2008 è stato approvato il blocco del turnover: in 10 anni i dipendenti a tempo indeterminato della sanità pubblica sono diminuiti del 6,5%, passando da 693.600 a 648.507 unità*.

Se gli effetti negativi di tali misure sull’efficienza del SSN si erano già palesati (negli ultimi 10 anni sono stati eliminati ben 37mila posti letto, e sono stati effettuati 2.5 milioni di ricoveri e 283 milioni di prestazioni in meno), la pandemia del 2020 ha drammaticamente mostrato il Re nudo. I servizi territoriali, che avrebbero dovuto prendere in carico i malati e indirizzarli a centri specializzati, hanno avuto grosse difficoltà a gestire il gran numero di pazienti e evidenziato gravi carenze. Di conseguenza, i cittadini affetti da Covid-19 o altre patologie si sono riversati nei Pronto Soccorso che, già in affanno prima della pandemia, in molti casi non hanno retto la pressione con i risultati che tutti conosciamo.

Nonostante oggi la pandemia ci stia dando relativamente tregua, e grazie alla vaccinazione di massa la pressione sui dipartimenti di urgenza dovuta al Covid-19 si è molto alleggerita, la convivenza con il Covid-19 in ambiente ospedaliero è un altro motivo aggravante la crisi in atto. Le attuali criticità del SSN hanno molteplici cause. Vediamone alcune.
1. Una programmazione sbagliata
, che ha causato carenza di medici (se ne laureano troppo pochi rispetto a quelli di cui avremmo bisogno). Mancano in particolare i medici di base, con ripercussioni su territorio e famiglie, e tra i medici specialisti, soprattutto quelli in medicina d’urgenza;
2. L’utilizzo improprio del Pronto Soccorso quale accesso alla cura. I Pronto Soccorso, teoricamente dedicati al trattamento delle urgenze e delle emergenze sanitarie, sono diventati la strozzatura dove pazienti di ogni tipo si accumulano, per mancanza del supporto dei medici di base da un lato e per scarsità di posti letto per i ricoveri ordinari dall’altro;
3. L’eccessivo carico di lavoro individuale nei Pronto Soccorso 
che, con più pazienti e meno personale sanitario, è aumentato del 50%. Oltre alla carenza di assunzioni degli scorsi anni (secondo la Società Italiana Medicina di Emergenza-Urgenza mancano 4.200 medici nei Dipartimenti di Emergenza Urgenza e Accettazione, DEA), da mesi si assiste ad una inarrestabile fuga di medici: se ne licenziano circa 100 al mese, trovando inaccettabili le condizioni di stress nelle quali sono costretti a lavorare. Il blocco del turnover è stato in parte rimosso durante la pandemia, ma i bandi per assumere nuovi medici sono spesso andati deserti. Molti medici (e infermieri) si sono riposizionati in strutture private, nella libera professione o all’estero, dove trovano condizioni di lavoro ed economiche migliori.
4. La discutibile gestione da parte di molte Regioni, che non sono riuscite a arginare la crisi dei Pronto Soccorso e della medicina del territorio. Molti ospedali hanno scelto di coprire i turni di Pronto Soccorso con medici specialisti in altre discipline, depauperando nel contempo reparti già in carenza a causa dei blocchi delle assunzioni e l’insufficiente numero di specializzandi, o hanno assunto per i dipartimenti d’urgenza medici non specialisti, quindi con scarse competenze specifiche. Non ultimo, malgrado la consapevolezza che, entro 5 anni, 45.000 medici di base andranno in pensione, ad oggi non è stato realizzato un piano per la loro sostituzione.
5. La progressione della pandemia. L’avvento di Omicron, la variante altamente infettiva di SARS-Cov2, ha aumentato drammaticamente il numero di pazienti che vengono ospedalizzati per patologie specifiche ma sono anche infettati da Sars-Cov2. I reparti ospedalieri devono quindi gestire sia la patologia che il concomitante Covid-19, con un conseguente aumento di complessità organizzativa e di costo di gestione.

Malgrado questa situazione di grave crisi, in campagna elettorale si parla pochissimo di Sanità, e i programmi dei diversi schieramenti non riportano proposte mirate alla risoluzione delle problematiche sanitarie. Per superare la crisi della sanità, bisogna spendere. La politica dei tagli secondo una logica puramente aziendale e poco congrua alla «mission» del SSN di tutelare la salute del cittadino è stata miope, e non ha anticipato gli enormi costi sociali ed economici, che purtroppo oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il rischio che si torni ai tagli è altissimo|

La Missione 6 del Pnrr è dedicata alla Salute, e prevede interventi infrastrutturali per un valore finanziario di oltre 3.2 miliardi. È necessario implementare fortemente questi interventi con misure a sostegno del personale: miglior formazione, migliore programmazione, più assunzioni e stipendi adeguati.

Per questo le scienziate si appellano a tutti i partiti in lizza in queste elezioni perché inseriscano questi obiettivi ai primi posti nei loro programmi elettorali prima, e nella loro azione di governo poi.


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