Watergate: c’era una volta l’America

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Sono trascorsi cinquant’anni da quando esplose lo scandalo che avrebbe condotto il presidente Nixon alle dimissioni. Parliamo del Watergate, l’albergo di Washington dove avvenne uno dei più celebri casi di spionaggio ai danni degli avversari, nello specifico i democratici, la vergogna che travolse un personaggio controverso che, tuttavia, agli occhi di molti americani, aveva avuto quanto meno il merito di provare a uscire dal pantano del Vietnam. Era la tarda primavera del ’72, i democratici, ancora scossi dall’assassinio di Robert Kennedy nel ’68, avevano deciso di puntare su uno dei candidati più a sinistra della propria storia, George McGovern, sperando di riuscire a contrapporre la forza e la freschezza dell’America “rumorosa” alla “maggioranza silenziosa”, tutta legge e ordine, su cui faceva invece affidamento il presidente in carica. Erano gli anni del potentissimo segretario di Stato Kissinger, della repressione feroce contro il movimento studentesco, di cui Nixon aveva addirittura ipotizzato di far rapire i leader (operazione Sapphire, zaffiro, nell’ambito della complessa e intollerabile Operation Gemstone, volta a impedire con ogni mezzo una possibile vittoria democratica), delle rivolte nelle università e del distacco sempre più ampio fra l’America conservatrice e reazionaria e chi sognava, già allora, un altro mondo possibile.
Richard Nixon era un relitto del Partito Repubblicano, già sconfitto da Kennedy nel ’60 e salito al potere solo a causa della tragedia di Bob Kennedy nel giugno del ’68 e della feroce spaccatura che, da quel momento in poi, avrebbe caratterizzato i democratici, dilaniati dalla guerra del Vietnam e dagli innumerevoli errori di Johnson, costretto dal suo conclamato fallimento a non ricandidarsi, con strascichi che sarebbero esplosi in veri e propri scontri durante la convention del Grant Park di Chicago nell’agosto dello stesso anno.
Nixon governò secondo dettami antiquati e obsoleti, non comprese i cambiamenti in atto nella società statunitense e fu, infine travolto dalla sua stessa arroganza, da una visione del mondo sbagliata e pericolosa, da una smania imperialista e dal desiderio ardente di mettere la polvere sotto il tappeto, senza affrontare i problemi crescenti di un paese in guerra innanzitutto con se stesso.
Tuttavia, bisogna prendere in considerazione l’aspetto che ci interessa maggiormente, ossia la libertà d’informazione. Perché se lo scandalo venne alla luce, fino a costringere il responsabile dei misfatti a delle storiche e clamorose dimissioni, il 9 agosto 1974, il merito fu di due giovani e coraggiosi giornalisti del “Washington Post”, Bob Woodward e Carl Bernstein, i quali fecero luce sull’accaduto grazie al pieno sostegno del proprio giornale, che all’epoca poteva contare più che mai sul supporto di un’editrice come Katherine Graham, la versione statunitense della nostra Giulia Maria Mozzoni Crespi, colei che con Ottone alla guida favorì la svolta progressista del “Corriere della Sera”.
Nixon era gia in allarme per la diffusione dei Pentagon Papers, i leaks relativi alla guerra del Vietnam che mostravano chiaramente il disastro senza possibilità d’appello di un’America con troppe colpe sulle spalle per poter essere ancora un modello per il resto del mondo. È doveroso riflettere su tutto questo, specie mentre un giornalista, Julian Assange, è costretto a vivere in condizioni disumane per aver rivelato notizie scottanti in merito alle nefandezze compiute dall’esercito americano in Afghanistan e in Iraq. Ecco, quando pensiamo ai valori occidentali, noi ci aggrappano orgogliosamente alla visione della signora Graham, alla forza d’animo di Woodward e Bernstein e anche alla passione civile di Mark Felt, all’epoca numero due dell’FBI, la gola profonda che svelò le trame di Nixon e contribuì a far pulizia in un quadro politico putrescente. Ci domandiamo cosa sia rimasto di quell’America in cui i grandi giornali, dal “New York Times” al già citato “Washington Post”, costituivano i cani da guardia del potere e delle preziose sentinelle della democrazia, in cui le gole profonde venivano tutelate e ritenute essenziali, in cui i cronisti che svelavano le malefatte dei governanti venivano considerati eroi e in cui editori ed editrici non avevano alcun dubbio su da che parte schierarsi. Ce lo domandiamo rileggendo l’opinione concorrente di Hugo Black, giudice della Corte Suprema, nella sentenza del 30 giugno 1971 che diede ragione al “New York Times” contro l’amministrazione Nixon, che aveva mandato un’ingiunzione per bloccare la pubblicazione dei documenti: “Soltanto una stampa libera e senza limitazioni può svelare efficacemente l’inganno del governo. E di primaria importanza tra le responsabilità di una stampa libera è il dovere di impedire a qualsiasi parte del governo di ingannare le persone e di inviarle all’estero in terre lontane, a morire di febbri straniere e sotto le bombe ed il tiro nemico”. E ce lo domandiamo mentre la conservatrice Priti Patel, segretaria di Stato per gli Affari interni del Regno Unito, ha autorizzato l’estradizione di Assange in America, esponendolo al rischio concreto di dover trascorrere il resto dei suoi giorni in un carcere di massima sicurezza. In tanta malora, ci interroghiamo sui nostri principî, sulla diversità che tanto sbandieriamo rispetto ai regimi che giustamente riteniamo esecrabili e sul nostro futuro, in memoria di ciò che siamo stati ma, con ogni evidenza, da tempo non siamo più sulle due sponde dell’Atlantico.

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