È mai davvero esistita la fine del colonialismo?

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Il colonialismo è mai davvero finito, oppure è stato semplicemente adattato ai tempi? Trovare una risposta a questa domanda è molto più complesso di come si potrebbe immaginare, perché quando si parla di colonialismo, pur ignorandolo, ci si riferisce a un qualcosa che va ben oltre la conquista e il possesso di territori e beni.

Per Georges Balandier, il post-coloniale non consiste nella cancellazione del coloniale, ma solo delle sue forme più apparenti. La società coloniale, fondata sulla dominazione, è inseparabile dalla società colonizzata, oggetto della dominazione.

Oltre che dalla messa in rapporto delle differenze culturali, la situazione coloniale nasce dagli scarti stabiliti fra i suoi elementi costitutivi e dalla logica inegualitaria che ne organizza le relazioni.

Dal punto di vista formale, queste relazioni si stabiliscono tra una minoranza demografica costituita in maggioranza sociologica dalla dominazione che esercita, cioè la società coloniale, e una maggioranza demografica ridotta allo stato di minoranza sociologica, che è poi la società colonizzata.

Quando le nazioni europee si sono imposte ai popoli cosiddetti «arretrati», li hanno stupefatti con la loro potenza tecnica e ricchezza; alcuni di questi popoli hanno subito sviluppato una sorta di complesso di inferiorità tecnologico.

Il consolidamento delle economie coloniali ha rovinato le rudimentali industrie locali, anche quelle asiatiche che avevano conosciuto una certa prosperità, lasciando sopravvivere solo un commercio di tratta che sottrae ricchezze naturali in cambio di un flusso di mercanzie. Per ottenere queste ultime, le quali hanno sempre più un ruolo importante per la sua esistenza, il colonizzato si lega progressivamente alla società coloniale, che diventa simbolo della sua dipendenza e indigenza.

La sempre più urgente necessità di avere un sistema economico reale che garantisca un generale innalzamento del tenore di vita si è andata affermando in presenza di potenze coloniali tutrici rimaste sempre riluttanti.

Quasi paradossalmente, anche i flussi migratori dalle ex-colonie verso gli ex-paesi colonizzatori sono un altro modo di mantenere le relazioni.

La colonizzazione infatti ha potuto beneficiare, ricorda Balandier, dell’esistenza del bisogno di dipendenza.

Nei casi più estremi, quelli dei popoli con meno resistenza socio-culturale, come avvenuto in gran parte dell’Africa nera, gli sconvolgimenti sono stati profondi e l’equilibrio tradizionale è stato radicalmente alterato.

La conseguenza di queste trasformazioni, e di politiche coloniali che hanno voluto sostituire, limitare o sedurre le autorità tradizionali, ha portato alla rottura dei vecchi rapporti di dipendenza e di sottomissione. L’origine dell’autorità e del potere è stata trasferita, resa estranea.

La dipendenza del mondo arabo dall’Occidente ha condotto a una decadenza dell’Islam, anche se poi gli elementi più occidentalizzati dei paesi arabi hanno indotto reazioni popolari di purismo musulmano, violento e passionale, spiegando così, almeno in parte, gli antagonismi che dividono le nazioni arabe e le azioni/reazioni verso il mondo occidentale.1

Gli studi cui si fa riferimento sono iniziati nella seconda metà del Novecento, non potevano sapere ma sembra abbiano saputo prevedere gli scontri e le derive che queste insofferenze hanno poi generato sul limitare del nuovo Millennio. Una vera e propria esplosione di rabbia e insofferenza che va dalle innumerevoli guerre civili nel continente africano, alle Primavere arabe e i troppi movimenti estremisti che hanno mescolato e fuso tradizione, religione e jihad.

La natura stessa delle reazioni suscitate dai rapporti o relazioni è legata al processo dominante.

In alcuni contesti, i problemi essenziali sembrerebbero di natura culturale – come per esempio in Africa Equatoriale -, attirando così l’attenzione quasi esclusiva degli antropologi.

In altri, si manifestano tensioni nelle relazioni razziali – come in Sudafrica – o problemi politici, come nei nazionalismi asiatici e africani, e allora l’interesse diventa un po’ più generalizzato.

Su tutti comunque pesa la «psicologia particolare dei colonizzati» e il loro bisogno di dipendenza, nonché ovviamente l’atteggiamento predatorio dei colonizzatori.

La società colonizzata può essere considerata come una società alienata, più o meno influenzata nella sua organizzazione socio-culturale a seconda della capacità di resistenza: tanto più è sottomessa alla pressione della società dominante e straniera tanto più è degradata.

Nella gran parte delle regioni sudafricane, l’arrivo degli europei e l’insieme dei cambiamenti che innescò ebbe l’effetto di scatenare una violenta conflittualità interna. Una situazione generata anche dalla perdita dei punti di riferimento originari. La forte emigrazione, per esempio, ebbe come conseguenza diretta un profondo indebolimento del tessuto familiare e sociale che portò a un declino pressoché totale del settore agricolo.

Spesso gli osservatori europei hanno insistito sulla intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Invece questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e post-coloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico.

Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione dello sviluppo occidentale. Liberandoci di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del Terzo Mondo, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. L’Africa, a quanto pare, sta diventando una condizione globale.2

L’Europa e l’Occidente tutto volutamente hanno diffuso l’idea di essere emblema di civiltà, progresso, benessere e cultura. I flussi migratori rispecchiano anche la volontà che in tanti manifestano di raggiungere proprio civiltà, progresso, benessere, cultura. Abbiamo già visto come i legami, o meglio le relazioni di dipendenza con gli stati ex-coloniali permangono e persistono anche allorquando si affermi l’avvenuto abbandono del sistema coloniale.

Tuttavia in tempi recenti si assiste a un qualcosa che definire paradossale è assolutamente riduttivo.

Rwanda e Gran Bretagna hanno siglato un accordo in base al quale, a partire dal 14 giugno 2022, saranno trasferiti nel Paese africano una parte degli immigrati illegali sbarcati nel Regno Unito in attesa che si decida sulle loro richieste di asilo.

L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha subito espresso la sua forte opposizione al piano britannico perché «le persone in fuga da guerre e perseguitate meritano compassione ed empatia. Non dovrebbero essere scambiate come fossero merci e trasferite all’estero in attesa dell’esito delle loro richieste di asilo politico»3

Per il primo ministro inglese si tratta di una misura per scoraggiare l’immigrazione illegale attraverso il Canale della Manica, percorso quotidianamente da barchini e gommoni. Una misura volta a minare la forza dei trafficanti di esseri umani.

E pensare che c’è stato un tempo, mai troppo lontano, nel quale non barchini ma navi e bastimenti partivano carichi di esseri umani e procedevano con la rotta inversa, ovvero dall’Africa verso il Nuovo Mondo, che trafficanti olandesi, francesi e inglesi trasportavano in catene. L’isola di Gorée, da cui partivano, è Patrimonio UNESCO dell’Umanità dal 1978.

(Fonte: Mondadori Education)

Una stima approssimativa ma significativa ricordava che i territori coloniali coprivano, all’epoca, un terzo della superficie del globo, e che settecento milioni dei due miliardi di abitanti totali era costituito da popoli assoggettati.4

Ecco perché, per Georges Balandier, qualsiasi studio delle società colonizzate, volto a una conoscenza della realtà contemporanea e non una ricostruzione di carattere storico, e mirato a una comprensione che non sacrifichi la specificità per la comodità di una schematizzazione dogmatica, può essere condotto solo facendo riferimento alla complessità di ciò che viene chiamata situazione coloniale.

Un’epoca caratterizzata dall’urgenza e dalla gravità di due tipologie di problemi che si impongono alle nazioni capitaliste e coloniali:

  • Quelli legati alle pressioni esercitate dai proletari.
  • Quelli nati dall’ascesa dei popoli colonizzati e dipendenti (rising nations).5

D’altra parte, si potrebbero mettere in connessione i due fenomeni utilizzando l’espressione dello storico Arnold J. Toynbee, di proletari «interni» ed «esterni» i cui problemi conseguono dalla reazione alla dominazione subita e dalla lotta per il riconoscimento.

All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina. L’intervento europeo sulla società feudale del Rwanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione.6

Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto da twa pigmei.

Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora.7

In Rwanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee di nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8

«Detesto il confinamento. La scelta di un mestiere che mi ha portato alla scoperta di culture differenti, alla conoscenza di come gli altri esprimono altrimenti la loro presenza al mondo e l’appartenenza al divenire storico, mi ha permesso di uscire dal recinto della mia cultura.»9

Balandier è stato promotore di un’antropologia sensibile alle dinamiche del cambiamento e di una sociologia attenta alle nazioni ex-colonizzate, come anche osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee.

Mai come i primi venti anni del nuovo Millennio in Europa la prosperità è stata così alta e diffusa e vi è stata tanta pace. Eppure, mai come in questo periodo, vi è stato un sentimento così diffuso, profondo e cupo di pessimismo per il futuro.

Perché l’Occidente si sente perduto?

All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, mentre quelle degli E7 per il 36.3 per cento. Il Resto del mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione. Ora, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto oppure non vi abbia dato importanza?

Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente non ha bisogno di essere bombardato.10

Insoddisfatto rispetto all’etnologia classica francese, per la sua inclinazione a studiare le società indigene come astratte rispetto al contesto coloniale in cui sono immerse, Balandier si distanzia anche da quelle tradizioni statunitensi e britanniche del primo dopoguerra, che pure hanno iniziato a mostrare interesse per le problematiche generate dall’incontro e dalla coabitazione di culture diverse. Egli rivendica l’importanza di studiare la dimensione macro delle relazioni inter-societarie, oltre che quella microscopica delle interazioni fra colonizzatori e colonizzati all’interno di circostanze specifiche.

Balandier ha dichiarato il suo stupore allorquando ha visitato in prima persona i possedimenti francesi, prima in Senegal e poi in Guinea, affermando di aver scoperto l’indigenza assoluta, i tropici senza la mascherina dell’esotismo, la colonia senza le decorazioni della potenza.

Ma poi è arrivato il momento anche per la potenza di essere guardata senza più il confronto con il primitivo.

La situazione coloniale, generata dall’espansione europea su buona parte del globo, ha unito società eterogenee. Il processo spezza dall’interno la società colonizzata, che si riorganizza secondo un principio di prossimità e distanza dei vari gruppi indigeni – per cultura, abitudini e stile di vita – dal modello di umanità superiore che i colonizzatori si arrogano il diritto di impersonare.

L’incontro tra culture eterogenee non ha modificato e stravolto solo gli Stati colonizzati ma anche quelli colonizzatori, nel breve e lungo periodo. Comprendere quindi le dinamiche di quell’ampio e variegato fenomeno noto come “situazione coloniale” è necessario non solo per conoscere la Storia ma, soprattutto, per comprendere il presente e le sue spesso incomprensibili dinamiche.

Soprattutto in Africa Equatoriale, Balandier è stato fra i tecnici le cui competenze avrebbero dovuto ispirare la trasformazione guidata delle società indigene, si trova poi, rientrato nel contesto metropolitano, ad ampliare la portata teorica delle intuizioni consegnateli dalle ricerche africane. I suoi interessi scivolano dalla riflessione sul colonialismo a quella sullo sviluppo, un termine centrale sia rispetto al discorso coloniale che a quello anti-coloniale.11

Balandier ha iniziato la riflessione sui rapporti fra società differenti dal punto di vista tecnico, economico e culturale considerando la situazione coloniale perché la dipendenza è una caratteristica della colonizzazione che si può riscontrare anche quando, senza una presa di possesso territoriale, una società interferisce dall’esterno con le dinamiche interne di un’altra. E il quadro delle ingerenze senza un reale possesso territoriale sembra rappresentare tutto il periodo, indicato come post-colonialismo, che giunge fino ad oggi.

La decolonizzazione, riallineando gli equilibri mondiali, ha generato nuovi condizionamenti in un clima di tensione crescente fra le superpotenze della Guerra Fredda.

I poteri imperiali europei, così come gli Stati Uniti, favoriscono i regimi che si oppongono al comunismo cercando al contempo di preservare le relazioni economiche coloniali. Confondendo il nazionalismo radicale con il comunismo e immaginando coinvolgimenti sovietici ovunque, hanno sponsorizzato attori locali che abbiano accettato la presenza di basi occidentali sul territorio.

Con meno risorse, l’Unione Sovietica ha sostenuto regimi espressisi in favore del socialismo scientifico e di un modello di sviluppo sovietico, così da rispondere al consolidamento della presenza occidentale e al coinvolgimento cinese con l’Africa.12

Nella fine della Guerra Fredda poi l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. La vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno Stato che, mentre il suo nemico “vincente” gongolava, si è pian piano ripreso fino a tornare a occupare il posto che aveva come potenza a livello mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica.13

Sia per gli attori esterni che per quelli interni, la parola chiave è modernizzazione, un processo guidato di trasformazione tecnologico-sociale che avrebbe dovuto portare gli ex-colonizzati ad acquisire gli standard e gli stili di vita degli ex-colonizzatori, migliorando la condizione complessiva dell’umanità.

Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.14 Lo stesso andrebbe quindi fatto per le economie di Terzo e Quarto mondo.

Ma Balandier considerava i costi umani e le conseguenze socio-politiche delle transizioni modernizzatrici troppo spesso imprevedibili, così come le nuove diseguaglianze che si profilano al superamento delle precedenti.

Agli inizi del Nuovo Millennio l’approccio teorico di Balandier conosce, in Francia, una nuova fortunata stagione, la quale è coincisa con la risposta violenta del governo alla mobilitazione dei Sans-Papiers, ovvero gli immigrati dalle ex-colonie francesi con titoli di soggiorno ambigui perché il Paese ha progressivamente ristretto le sue politiche di immigrazione e acquisizione della cittadinanza. Una dura repressione che anima un acceso dibattito sul «debito di sangue» che la nazione ha contratto con i Tirailleurs Sénégalais, un corpo di fanteria composto da reclute forzate inizialmente dal Senegal e dal Mali e poi dall’intera Africa sub-sahariana francese,15 utilizzato tanto nelle colonie quanto in Europa durante le due guerre mondiali.

Poi nell’ottobre e novembre del 2005, le rivolte giovanili nelle periferie delle principali città francesi, danno voce a un disagio pluri-decennale mai seriamente affrontato: dietro la pretesa di un’assimilazione a partire dall’erosione di pratiche culturali pre-esistenti, l’integrazione alla francese ha mascherato la riproduzione e il rafforzamento di tratti culturali e razziali percepiti come inaccettabili rispetto all’assetto repubblicano.16

È significativo nelle circostanze che la proclamazione dello stato di emergenza per fermare l’ondata di violenza si appoggi alla legislazione utilizzata dal 1955 per sedare le proteste contro la Guerra d’Algeria (1954-1962). L’allora Ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, etichetta i rivoltosi come racaille, ossia feccia, un’evocazione del vocabolario razzializzante coloniale, mentre larghe sezioni dell’opinione pubblica, convinte che il colonialismo non riguarda la loro Francia, ritengono i partecipanti alle proteste indegni di essere o diventare Francesi.17

La decolonizzazione ha generato una frattura nel senso di sé delle ex-potenze coloniali, trasformandole da leader auto-proclamati della storia globale ad attori come gli altri. Il baricentro della situazione coloniale si è spostato, attraverso l’immigrazione, nelle periferie delle ex-metropoli imperiali, dove il pluralismo culturale e sociale generato interiorizza, a dispetto della possibilità di altri linguaggi e dinamiche culturali, modelli coloniali.

Per capire e giudicare un’epoca, secondo Balandier, occorre porsi dal punto di vista di coloro che l’hanno vissuta, capire tanto le circostanze quanto le conseguenze delle scelte compiute e delle decisioni prese sul piano personale e professionale.

Egli ritiene che, oltre a constatare ed esporre criticamente l’eredità coloniale francese, si debba continuare la lotta per «creare l’attuale altrimenti».18

«La ripetizione di formule passate, di saper-fare trascorsi, non è più sufficiente. Per avere accesso a una democrazia condivisa, è soprattutto necessario aprirla alle differenze così da sigillarla rispetto a dinamiche di dominazione oltre che esclusive, funeste».

I saggi di questa raccolta, come l’intera opera di Balandier sono straordinariamente attuali. È interessante e, per certi versi, sorprendente notare quanto la sua ricerca, al pari di quelle di tanti altri studiosi capaci di liberarsi dai preconcetti e dai pregiudizi, sia riuscita a vedere e a prevedere le società, colonizzate e colonizzatrici, e a seguirne le varie evoluzioni. Un lavoro straordinario.

Il libro

Georges Balandier, La situazione coloniale e altri saggi, Meltemi Editore, Milano, 2022.

Traduzione e introduzione di Alice Bellagamba e Rita Finco.

Titolo originale: La situation coloniale: Approche théorique, Cahiers Internationaux de Sociologie, Paris, 1951.

L’autore

Georges Balandier: È stato uno dei massimi esponenti della ricerca antropologica francese. Intellettuale critico, pioniere della ricerca africanista e ideatore della nozione di «Terzo Mondo», è stato promotore di una prospettiva metodologica sensibile alle dinamiche del cambiamento, nonché osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee.

1H.A.R. Gibb, La réaction contre la culture occidentale dans le Proche.Orient, in «Monde d’Orient», Editions Maisonneuve et Co, Paris, 1951; R. Montagne, Naissance du prolétariat marocain, in Cahiers de l’Afrique et en l’Asie, Vol. III, I Trimestre, Paris, 1952.

2Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

3È quanto si legge in un tweet di UNHCR, the UN Refugee Agency del 14 aprile 2022 consultabile al seguente link: https://twitter.com/Refugees/status/1514699018500292617/photo/1

4R. Kennedy, The Colonial Crisis and the Future, in R. Linton, ed., The Science of Man in the World Crisis, Comulbia University Press, New York, 1945.

5J. Obrebski, The Sociology of Rising, in «International Social Science Bulletin», Unesco, Vol. III, n° 2, 1951.

6M. Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.

7C. Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005.

8S. Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.

9G. Balandier, Conjugaisons, Fayard, Paris, 1997.

10K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.

11J. Copans, Georges Balandier. Un anthropologue en première ligne, Presses Universitaires de France, Paris, 2014.

12A. Bellagamba e R. Finco, La situazione coloniale e altri saggi di Georges Balandier (introduzione al libro), Meltemi Editore, Milano, 2022.

13K- Mahbubani, op. cit.

14J. E. Stiglitz e B. C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018.

15G. Mann, Immigrants and Arguments in France and West Africa, in «Comparative Studies in Society and History», Vol. XLV, n° 2, 2003.

16F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deceptions of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and African Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009.

17A. Stoler, Colonial Aphasia: Race and Disabled Histories in France, in «Public Culture», Vol. XXIII, n° 1, 2011; F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deception of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and the Africa Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009; A. Mbembe, Faut-il provincialiser la France?, in «Politique africaine», n° 119, 2010.

18C. Coquery-Vidrovitch, Hommage à Georges Balandier, in «Presence Africane», n° 194, 2016.


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