“Diaz” dieci anni dopo 

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“Diaz”, dieci anni dopo. È trascorso un decennio da quando uscì nelle sale uno dei film più importanti della storia del cinema italiano, il capolavoro di Daniele Vicari, un regista che ci ha regalato molte opere importanti ma nessuna delle quali, a parer mio, sarà in grado di eguagliare, per potenza espressiva, quell’affresco del dolore che ha reso almeno in parte giustizia alle vittime della barbarie. Una barbarie che dovrebbe interrogarci sui presunti “valori occidentali”, quelli che sbandieriamo anche in questi giorni con inusitata protervia, senza renderci conto che sono gli stessi che ci hanno condotto in quell’abisso, essendo stati traditi, calpestati e derisi ormai da troppo tempo. L’Occidente che ha voluto stravincere dopo l’abbattimento del Muro di Berlino, l’Occidente che si è convertito a una globalizzazione sbagliata e volta a favorire unicamente il traffico delle merci, a scapito degli esseri umani, dei loro diritti della loro dignità, l’Occidente del capitalismo sfrenato e del liberismo selvaggio, quell’Occidente era stato sfidato nel biennio ’99-2001 da una comunità mondiale fatta di ragazze e ragazzi che sognavano nuovi orizzonti, un modello di sviluppo radicalmente alternativo e una prospettiva che avesse ancora al centro l’essere umano e i suoi principî inalienabili. Le conseguenze di questa sfida le abbiamo viste soprattutto a Genova: alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, due inferni che testimoniano il nostro collasso ideale, la nostra sconfitta civile, il nostro declino purtroppo inarrestabile.

Daniele Vicari, con il suo cinema di impegno civile, ha avuto il merito di ricordarci tutto questo, basandosi sulle carte processuali e ricostruendo lo scempio della democrazia e della Costituzione, nonché della Dichiarazione universale dei diritti umani, senza alcun cedimento alla spettacolarizzazione, senza inventare nulla e, anzi, togliendo dalla sceneggiatura gli aspetti più violenti e indicibili, le scene che avrebbero disturbato il pubblico e rischiato di indurre qualcuno a gridare all’esagerazione. Il suo film si capisce ancora meglio se lo si mette in relazione a un altro gioiello, ahinoi sottovalutato, del nostro cinema: “Ora o mai più” di Lucio Pellegrini. Le due opere, assai diverse fra loro, restituiscono lo spaccato di un’epoca. Pellegrini si concentra sulla spensieratezza dei ragazzi e delle ragazze di allora, sul loro bisogno di follia, di anarchia, di libertà, di leggerezza, sulla loro gentilezza d’animo e sulle loro speranze che vengono calpestate, distrutte, trasformate in una disperazione che non li avrebbe più abbandonati. Rende, insomma, alla perfezione il trauma di una generazione e lo fa con una narrazione scanzonata e serena che può dare l’impressione di minimizzare il tutto, quando in realtà ci restituisce la ferocia nella sua portata più autentica: un’irruzione di disumanità che ancora permea la nostra società. Vicari, dieci anni dopo, si serve delle carte processuali, del lavoro eroico dei PM Zucca e Cardona Albini per quanto concerne la Diaz e Petruzziello, Ranieri Miniati, Settembre, Ivaldi, Borzone e altri ancora per quanto riguarda Bolzaneto.
In un action straziante ci pone a confronto con la coscienza sporca del nostro Paese. E ci dice con chiarezza che in quella scuola genovese è rimasta seppellita una certa idea di Europa e di mondo, quella che oggi invochiamo a gran voce ma di cui non ci siamo dimostrati degni. Spiace dirlo, ma quando pensiamo al nostro degrado dobbiamo avere sempre in mente il martirio di Alma Koch. Alma, il cui personaggio è ispirato a una storia vera e terribile, è al tempo stesso un’allegoria, racchiudendo in sé l’annientamento di più persone e divenendo l’emblema di una generazione tradita. I denti rotti, il braccio storto dietro la schiena, lo sputo in faccia, la sua sofferenza senza fine, il dolore che le si leggeva in viso e ne scavava i lineamenti bellissimi: Jennifer Ulrich è il simbolo di un mondo sconfitto ma ancora vivo, ancora disposto a battersi per una società migliore, indomito nonostante le cicatrici e i drammi che ha patito. A pensarci bene, non c’è alcuna interruzione fra il personaggio di Karo, la studentessa che ne “L’onda” di Denis Gansel si batte contro una forma subdola di nazismo indotto, e Alma, la manifestante alterglobalista che lotta contro lo strapotere della finanza e la dittatura del profitto che finisce col disteuggere ogni forma di civiltà. Jennifer Ulrich incarna, dunque, la bellezza di chi ancora sogna un’altra idea di futuro, come dimostra anche il suo impegno in prima persona a sostegno del popolo ucraino nel corso della guerra che Putin ha riportato prepotentemente in Europa. E come lei Elio Germano, già protagonista con Pellegrini e simbolo della libertà d’informazione presa a manganellate nell’opera di Vicari: un altro di quegli attori che non interpretano il proprio personaggio ma lo introiettano, fino a rendere molto difficile la distinzione tra finzione e realtà.

Ho amato “Diaz” quasi alla follia. È stato la mia bussola durante la preparazione dell’inchiesta che ho realizzato, l’ho mandato avanti e indietro la sera prima di ricevere la telefonata di Lena Zühlke che mi ha cambiato per sempre la vita, mi sono concentrato sulle sue scene più atroci quando si sono materializzate davanti a me alcune donne che quel tormento lo hanno vissuto sulla propria pelle e, grazie a Jennifer Ulrich, ho compreso l’essenza ferina dello stupro, che è tale anche quando viene compiuto unicamente a parole, in quanto quella violenza ha comunque la forza di lacerare l’anima e far perdere a chi le subisce ogni fiducia in se stessa. Nelle immagini di quella ragazza costretta a girare nuda sotto gli sguardi feroci dei suoi aguzzini, comprese alcune donne, è racchiusa la nostra disillusione, soprattutto se si considera che quella scena non appartiene alla fantasia di un bravo cineasta ma alla realtà tragica di un’Italia che nel luglio del 2001 si è trasformata per diversi giorni in una nazione in cui esistevano zone franche senza Stato né legge. Da allora non ci siamo più ripresi, e quel film sta lì a ricordarcelo. Dieci anni dopo, mentre ovunque trionfa l’ipocrisia e tornano in cattedra i pifferai della globalizzazione disumana, è doveroso ricordare alla collettività che uno degli otto sedicenti grandi di Genova era proprio Vladimir Putin. Alma Koch costituisce, pertanto, un punto di riferimento, l’utopia concreta di una ribellione ancora possibile: la meraviglia contrapposta all’orrore, sperando che non sia troppo tardi.

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