Salviamo Taqi, Jalil e Nemat. Intervista a Mohammad Jan Azad

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Mohammad Jan Azad è afghano di etnia hazara, la sua storia ha ispirato il film di Costanza Quatriglio “Sembra mio figlio”. Oggi lancia un appello per salvare Taqi Daryabi, Jalil Rawnaq e Nemat Naqdi, i tre giornalisti torturati dai talebani mercoledì scorso durante la manifestazione delle donne a Kabul. Le immagini dei loro corpi martoriati hanno fatto il giro del mondo su tutte le testate nazionali e internazionali.

Cosa significa questo video?

Questo video significa che questi giornalisti stanno rischiando la vita e stanno chiedendo all’Italia, all’Unione Europea, alla Comunità Internazionale e ai giornalisti dei paesi occidentali di aiutarli a farli uscire dall’Afghanistan perché rischiano la vita e adesso vivono nascosti, come tanti afghani, senza neanche poter più uscire di casa. Uno di loro sta già perdendo un occhio e l’udito da un orecchio per le violenze ricevute.

Questi giornalisti sono minacciati anche perché sono della minoranza hazara?

In questo caso è difficile capire quanto conta per l’odio dei talebani essere hazara o essere giornalista. Il loro odio è per entrambe le condizioni dei tre miei amici. C’è da testimoniare che nel carcere dove sono stati portati, tutti i prigionieri erano di etnia hazara. E, come si vede in alcuni video che circolano in rete, i talebani hanno già minacciato la popolazione hazara di Daykudi di lasciare i loro villaggi sennò verranno uccisi.

Da quanto tempo non vedi i tre giornalisti?

Non li vedo da 24 anni, da quando ero bambino. Io mi sono salvato ventiquattro anni fa e loro sono rimasti lì, hanno studiato e si sono impegnati per la costruzione dell’Afghanistan. Oggi sento che siamo tutti ritornati a quei 24 anni fa, ma la violenza dei talebani oggi è ancora peggiore perché vogliono vendicarsi di ciò che i giornalisti hanno scritto su di loro in tutto questo tempo.

La tua storia ha ispirato il film “Sembra mio figlio” di Costanza Quatriglio.

Sì, con Costanza Quatriglio abbiamo fatto prima un documentario in cui raccontavo proprio la condizione mia e dei tanti ragazzi scappati dall’Afghanistan dai talebani più di vent’anni fa, si intitola “Il mondo addosso”. Dopo qualche anno abbiamo ritenuto necessario raccontare la mia storia, che è anche la storia del popolo hazara, laddove la comunità internazionale non aveva conoscenza delle sofferenze di questo popolo per tutto quello che ha subito prima, durante e dopo il governo talebano in Afghanistan.


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