Netflix: gli affari vanno fuori quota

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Il Sole 24 Ore ha riportato con evidenza una bizzarra polemica aperta dalla società di distribuzione in streaming di film, audiovisivi e programmi sugli obblighi di investimento nella produzione audiovisiva europea.

Il pomo della discordia è il testo del decreto legislativo recentemente varato dal governo – prossimo ormai ai pareri parlamentari- in applicazione della direttiva di Bruxelles (2018/1808) sui servizi media (SMAV). In esso si ritoccano le cosiddette quote obbligatorie di immissione di risorse nel settore dell’immaginario filmico.

In verità, c’è stato un saliscendi costante al riguardo. Nella stagione recente si è passati dall’articolato applicativo (dlgs.n.204/2017) della riforma del cinema voluta nel 2016 dal ministro Franceschini, al più blando decreto legge n.59/2019 del suo transitorio successore Bonisoli. E ora si arriva alla disciplina contestata.

L’argomento è antico e annoso. La vicenda risale all’intuizione dell’allora titolare del dicastero francese della cultura Jack Lang negli anni dei socialisti al governo con la presidenza della repubblica di Mitterrand. Fu sotto quell’impulso che prese forma la direttiva Televisione senza frontiere (89/552/CEE), da cui originò la pratica delle quote di investimento dedicate alle opere nazionali ed europee. Si voleva -la sinistra italiana appoggiò decisamente tale impostazione- arginare l’invasione dell’industria statunitense o di quella giapponese dei cartoni animati. Il risultato fu in parte ottenuto, perché i palinsesti vennero animati da espressioni artistiche legate anche alla migliore tradizione autoriale e non solo ai campioni omologati della comunicazione di massa.

In Italia, con il solito ritardo, la direttiva trovò applicazione con la legge n.122 del 1998. Grazie a quest’ultima, la televisione generalista (pubblica e privata) è sopravvissuta. In fondo, se ci si pensa seriamente, senza informazione e senza film e serialità il video si sarebbe rattrappito, accartocciandosi fino a sparire. Se vi è stata una qualche resistenza all’insorgenza capillare e prepotente della rete, il merito sta nel flusso (bello o brutto che sia) delle news e nelle fiction. Anzi. Se, ad esempio, si può parlare di rilancio di Cinecittà o di un settore vessatissimo dal Covid è per la presenza attiva del piccolo schermo, surrogato di epopee di altre stagioni del mondo. Quindi, le quote sono un investimento, non una spesa iniqua o un fardello burocratico. Togliete le quote e il castello si sgretolerà in poco tempo.

Torniamo all’improvvida polemica sollevata dalla società nata nel 1997 in California, fondata dal brillante visionario bostoniano Reed Hastings, cui si deve un emblematico libro dal titolo L’unica regola è che non ci sono regole (2020).

Si critica decisamente la percentuale prevista di obbligo di investimenti, che salirebbe dal 17% previsto per oggi al 25% del 2025%. Siamo al livello stabilito per la Rai. Tuttavia, non si dice la verità: la cifra è riferita agli introiti netti conseguiti in Italia. E qui cascano l’asino e tutto il resto. Qual è davvero l’entità regolarmente tassata dal fisco italiano? Dove sono gli stabilimenti dell’agguerrita entità sovranazionale? Quante persone stanno e lavorano qui?

Non si tratta di polemiche strumentali. Al contrario, si vuole indurre la stessa Netflix ad accompagnare l’invettiva ai dati reali. Altrimenti, inveire contro misure neppure particolarmente rigide è solo fuorviante.

Se mai, va salutato positivamente il decreto in questione, visto che si comincia a mettere sullo stesso piano i fornitori di servizi media lineari e non lineari. Insomma, quando attraverso la rete si veicolano contenuti non può esserci asimmetria. Il messaggio è il mezzo, non il rovescio.

Si apra – se mai- un confronto serio su argomenti ormai fondamentali. Non è credibile pensare alla rete come un luogo slegato da un’adeguata regolazione. E si declini pure nell’audiovisivo il dibattito sulle delocalizzazioni.

PS: straordinaria la puntata di PresaDiretta trasmessa dalla terza rete della Rai lo scorso lunedì, sul caso di Julian Assange. Quando si fa servizio pubblico.


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