Giulietta alla Festa dell’Unità

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Bologna apre le porte della città a Giulietta Masina, di cui quest’anno si dovrebbe celebrare il Centenario. Ma l’Italia, sbadata, non se ne occupa, a parte qualche iniziativa sporadica, in sordina. Neppure il Festival di Venezia ne ha voluto sapere, silenzio di tomba. Eppure sarebbe stata una buona occasione per parlare attraverso i personaggi di Giulietta – Gelsomina, Cabiria – delle tante donne abusate, e del massacro che ogni giorno si compie su di loro in un colpevole silenzio generale. Una carneficina che non cessa, anzi si perpetua sotto i nostri occhi che pure pretendiamo di vivere in un paese civile, moderno, economicamente avanzato, e ci sentiamo impegnati a difendere i diritti elementari degli emarginati, degli esclusi.

Pensate come sarebbe stata rifulgente l’immagine di Giulietta scelta a logo della manifestazione veneziana in corso, utilizzando magari uno schizzo estroso di Federico, e per slogan una frase da lui pronunciata al tempo di Giulietta degli Spiriti, nel 1965, quando il femminismo era ancora ben al di là da venire:

«Nessun uomo sarà veramente libero finché non sarà libera anche l’ultima donna».

Bologna la dotta ha aperto dunque il cuore alla sua quasi concittadina (Giulietta è nata a San Giorgio di Piano, nell’hinterland) e in piazza Maggiore, in occasione della manifestazione estiva “Sotto le stelle del cinema” la sera del 30 giugno è stata proiettata su schermo gigante la copia restaurata de La Strada. Un evento esaltante, di gran classe, concepito e attuato da Gian Luca Farinelli, leggendario direttore della Cineteca.

È difficile crederlo, ma sono accorsi 1500 spettatori, tra i quali una massa compatta di giovani, che si sono sottoposti a una lunga coda per poter ammirare il capolavoro di Fellini per la prima volta, si presume, su un canonico schermo cinematografico. I posti non bastavano, altre centinaia di persone assistevano allo spettacolo da uno schermo supplementare allestito a distanza nella LunettArena.

Ero stato chiamato a introdurre brevemente la pellicola, sono salito sul palco e anch’io non credevo ai miei occhi: assuefatto a riunioni di volenterosi catecumeni, avevo di fronte a me un mare di teste che distinguevo appena, abbagliato dai riflettori: Piazza Maggiore, vasta ed elegante nella mia memoria di giovane universitario, era completamente invasa dalla folla impaziente di vedere un film girato settanta anni prima, benché cresciuto nel volgere del tempo a oggetto di culto per ogni appassionato della Settima Arte.

Di questo avrei voluto parlare a tutti i ragazzi seduti ordinatamente in platea, null’altro che della magia della vita, in cui loro sicuramente credevano se erano in attesa di quella storia cinematografica definita dallo stesso Fellini “una favola truce”. Una vicenda misteriosa che nasconde nel proprio tabernacolo più riposto un segreto mai rivelato.

Avrei mai potuto immaginare, da studentello di Lettere all’Alma Mater Studiorum, che un giorno chissà quando, chissà come, avrei rimirato quella piazza superba dalla prospettiva di un palco rialzato, con San Petronio sulla destra, palazzo Re Enzo a sinistra, infervorato a illustrare da quel podio il miracolo dell’arte? Di confidare ad altri ragazzi, com’ero io allora, che nella vita di ognuno di noi esiste uno scambista, analogo a quella figura di ferroviere, scomparsa ormai da lustri e decenni, che all’uscita delle stazioni azionava a mano una lunga leva d’acciaio per avviare il convoglio in transito sull’uno o sull’altro binario, alla sua inappellabile destinazione.

Bologna la dotta. Quello scambista era stato per me “Momi”, Francesco Arcangeli, mitico docente di Storia dell’Arte al quale mi ero rivolto per la tesi. E lui, riverberato di fresco dalla visione di Fellini Satyricon alla Mostra del Cinema di Venezia, mi aveva detto: “Farai la tesi su Fellini”. “Ma è un regista…” Avevo obiettato ingenuamente, sentendomi rispondere: “No, è il più grande artista visivo del Novecento”.

Il fatale scambista aveva tirato la leva e la misconosciuta Settima Arte metteva piede in quel momento nell’Università bolognese, un ateneo ancora talmente tradizionale che per far accettare una tale bizzarria era dovuto intervenire come co-relatore Luciano Anceschi, docente di Estetica e introduttore in Italia della Fenomenologia di Edmund Husserl e di Antonio Banfi.

Quando si dice il caso, proprio in questi giorni vengo a scoprire da un libro appena uscito di Pierfranco Moliterni, che Nino Rota era stato compagno di corso di Luciano Anceschi alla Facoltà di Lettere di Milano. Diventando in seguito il musicista che più di ogni altro era riuscito ad applicare lo spirito autentico della Fenomenologia alle proprie composizioni musicali, anzi al concetto stesso di una musica libera, sincretista, che sembrava creata su misura per i film di Fellini. Rota “L’amico magico”, il collaboratore più caro, più prezioso, più amato e insostituibile del regista riminese.

Quante coincidenze, da uscirne ubriachi.

Come contenere in poche frasi tutto ciò che avrei voluto trasferire a quei ragazzi in attesa del film?

Avrei voluto riversare dentro di loro tutta la mia passione, sciogliere il mio bagaglio accumulato in tanti anni, sciorinare le mille tessere di un mosaico che, una volta completato, è in grado di restituire l’immagine non troppo occultata e assolutamente fedele in cui ciascuno può riflettersi.

Avrei voluto dire loro: guardate che settanta anni fa, quando La Strada uscì nelle sale, gli intellettuali marxisti armati di cipiglio si avventarono alla lapidazione. Alla mostra di Venezia, dove era in concorso il film Senso di Luchino Visconti, campione osannato della sinistra, le fazioni opposte vennero alle mani, se le diedero di santa ragione e fu costretta a intervenire la polizia per separare gli scalmanati. Il cinema era ancora fuoco ardente di forti passioni.

I critici politicamente schierati fomentavano la rissa a danno del giovane regista riminese che non si era assoggettato al mainstream del realismo sociale. Luigi Chiarini scrisse:

I personaggi ridotti a simboli sono svuotati di ogni loro concreta e possibile umanità. (…) Il film è fiacco, lento, senza ritmo; questa ‘strada’ è un vicolo cieco”.

E gli altri intonavano il coro. Oggi può sembrare alquanto maramaldesco, ma un breve florilegio risulta istruttivo. Gli aggettivi riservati dagli spregiatori dell’opera di Fellini, svariavano da vecchio a falso, a insincero, letterario, irreale, patologico, velleitario, bamboleggiante.

Aristarco ironizzava sul “ritardo culturale della Francia” i cui intellettuali, a iniziare da André Bazin, avevano osannato il film. E affondava il coltello:

Fellini appare come regista anacronistico, impastoiato in problemi umani superati da tempo”.

Giulio Cesare Castello:

Fellini non è riuscito a contrastare la propria pericolosa tendenza a un lirismo che degenera troppo spesso in liricismo, ad un compiaciuto vagheggiamento della lacrima patetica”.

Carlo Lizzani:

Il clown disperato, il bruto tutto muscoli, la candida povera di spirito, sono figure ormai digerite da legioni di poeti decadenti e crepuscolari.”

C’erano anche per fortuna dei cauti dissensi, avanzati da spiriti liberi come Michele Rago, o Franco Fortini, che scrissero addirittura lettere aperte in difesa dell’opera felliniana.

Ma in definitiva Fellini veniva bollato come traditore della causa neorealista.

Di fatto – annotava Tullio Kezich – la sinistra nega la visione di un’Italia ‘altra’, rivelando una sbalorditiva ignoranza.”

Bologna la dotta. Tra i marxisti non accecati dall’ideologia si distingueva il bolognese Renzo Renzi che scriveva:

Ma se l’inclinazione di Fellini è rivolta al particolare (e lo stesso discorso vale per Zavattini) è accettando e riconoscendo questa sua attitudine che noi saremo in grado di aiutarlo veramente a mantenere una funzione personale e feconda alla sua opera. Basta con le inefficienti filippiche, evitiamo di distruggere quella corda autentica che permette a un artista di dare risultati durevoli.”

Ed era stato lui a consegnarmi il biglietto di presentazione con cui andai a incontrare il regista a Roma. Renzo Renzi era il creatore e direttore della più straordinaria collana di cinema mai apparsa in libreria, “Dal Soggetto al Film” dell’editore Cappelli, e aveva fondato la biblioteca cinematografica del capoluogo felsineo, dove mi ero recato per mesi a documentarmi per la stesura della tesi. A Renzo Renzi oggi è intestata la Cineteca più scintillante d’Italia, che Gian Luca Farinelli, suo alunno ed emulo, ha preso in carica dopo la scomparsa del Maestro, trasformando l’istituto in uno dei più importanti presidi mondiali della Decima Musa, e il primo centro di restauro nel mondo.

È vero, è trascorso mezzo secolo dalla mia laurea e intorno a noi tante cose sono cambiate come non avremmo potuto neppure lontanamente presagire. Quant’acqua è passata sotto i ponti! Nei riflussi della Storia, Giulietta Masina è addirittura approdata al centro di una splendida serata alla Festa dell’Unità del capoluogo più rosso d’Italia. Bologna la rossa. Una sorprendente inversione di rotta.

Al Parco Nord della città, tra una trattoria “Bella ciao” e un ristorante “Dal Partigiano”, tra i molteplici stand commerciali, i punti di ristoro di cucina regionale, le tensostrutture che ospitavano comizi roboanti, si è imposta per qualche ora La casa delle idee, inventata a suo tempo da Paolo Volponi. In quello spazio assorto e protetto, un pubblico attento, silenzioso, partecipe, si è raccolto con emozione intorno alla figura femminile paradossalmente più amata e più ignorata del nostro cinema.

In quell’antro fatato si discorreva di poesia, di spiritualità, del talento irripetibile di un’attrice per ben due volte interprete di un film premiato dall’Academy di Hollywood.

Female Charlot”, Charlot al femminile, l’aveva ribattezzata l’immenso Charlie Chaplin.

Giulietta, non dimentichiamolo, è stata anche l’impareggiabile protagonista di Ginger e Fred, con a fianco Marcello Mastroianni alter ego del marito; e ha saputo raccontare, in punta di piedi, il congedo di un’anziana coppia di ballerini di tiptap da quel mondo dello spettacolo sopraffatto e reso irriconoscibile dalla devastazione catodica.

Farinelli nel corso dell’incontro ha rivelato che il giorno dopo la proiezione de La Strada in Piazza Maggiore, un ragazzo gli aveva inviato una mail per dirgli che giunto al finale del film era svenuto.

La poesia, come l’amore, vince (quasi) sempre. A dispetto di ogni ideologia.


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