Giancarlo, quel ragazzo diventato un simbolo

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Ha ragione Pietro Gargano, da quel maledetto 23 settembre 1985, quando Giancarlo Siani fu trucidato dalla camorra, la memoria è cresciuta e “quel ragazzo cronista è diventato un simbolo di resistenza possibile al male, di civiltà”. Sono passati 36 anni da quel giorno, sappiamo che non tutta la verità che si nasconde dietro il delitto è stata scoperta, ma sappiamo che quei criminali hanno commesso un grave errore spargendo quel sangue innocente. Hanno provato a mettere il bavaglio alla stampa e invece hanno acceso migliaia di voci, quelle di tanti ragazzi e ragazze che sull’esempio di Giancarlo hanno scelto di fare i giornalisti, di denunciare, di raccontare la verità, come aveva fatto lui, fino in fondo, affrontando la paura e tutte le conseguenze di un lavoro difficile. Giancarlo, bello e giovane, come un martire cristiano, come un eroe greco, vittima del destino, come necessità suprema e ineluttabile, è diventato un’icona perfetta, incorruttibile, fuori dal tempo. È lui la rappresentazione esatta di quello che, nel film di Marco Risi, viene definito giornalista-giornalista. È lui l’esempio da seguire. Nostro dovere è tenere accesa la memoria.

Per questo il Sindacato dei giornalisti, con la Fnsi e il Sugc, ha deciso di contribuire alla realizzazione del libro “Per Giancarlo Siani. Dalla verità sul delitto al mistero del dossier” che “il Mattino”, il suo giornale, distribuirà in edicola il 23 settembre, giorno dell’anniversario dell’omicidio. Ci è sembrato un dovere partecipare. Questo testo è diverso dagli altri. È scritto dai suoi colleghi, da quelli che hanno costituito quel pool incaricato dal direttore del quotidiano di indagare sull’omicidio del collega, e che con il proprio lavoro ha contribuito a stimolare l’inchiesta giudiziaria che ha poi portato alle condanne dei killer. È un testo che contiene degli inediti e che riesce a evidenziare dei punti che sono rimasti oscuri, come il libro dossier che Siani aveva scritto, del quale parla in una lettera a un’amica di Bologna, e che non è mai stato ritrovato. Non è un particolare da poco, perché simbolicamente definisce bene lo spessore del giornalista e il movente del delitto. Il clan non ha “punito” un cronista, come si fa per gli “affiliati”, per quello che aveva scritto, ma lo ha eliminato per quello che avrebbe potuto ancora scrivere. La verità è, insomma, che la camorra aveva paura di Giancarlo.


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