Birmania. Dopo il colpo di stato nessun passo avanti nell’azione della comunità internazionale

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Ad oltre nove settimane dal colpo di stato in Birmania, nonostante la ferocia delle truppe per le strade del paese continui ad aumentare, facendo salire il numero delle persone uccise ad oltre 600, non si intravede alcun passo avanti nell’azione della comunità internazionale. All’ONU, Christine Schraner Burgener, aveva affermato nel corso della sessione a porte chiuse, che il Consiglio di sicurezza dell’ONU dovrebbe: “considerare tutti gli strumenti disponibili per un’azione collettiva e per fare ciò che è giusto, ciò che il popolo birmano merita, per prevenire una catastrofe multidimensionale nel cuore dell’Asia”. Ma il massimo che il Consiglio è riuscito a fare è stato l’adozione di un comunicato stampa di condanna delle violenze, e non di condanna del colpo di Stato.

Mentre i paesi Asean continuano ad assumere posizioni che ricalcano la tradizionale politica della non ingerenza negli affari di un altro paese. Anche se la drammaticità della situazione ha imposto almeno la decisione di indire a Jakarta, sede del segretariato ASEAN, una riunione dei 10 membri, anche se ancora non si conosce ne la data, l’ordine del giorno.

In questo clima attendista le missioni dei ministri degli esteri continuano, sempre però con un nulla di fatto. Ai primi di marzo i parlamentari malesi avevano chiesto all’Asean di sospendere la Birmania/Myanmar da membro dell’Asean fino a quando i militari non si fossero seduti al tavolo negoziale con l’NLD ed i rappresentanti della protesta, per trovare una soluzione pacifica. L’appello era stato raccolto da alcuni parlamentari di spicco dell’opposizione di Malesia, Filippine, Singapore , Tailandia e Malesia, ma è caduto anch’esso nel vuoto.

Nei giorni precedenti, il ministro degli esteri cinese Wang Yi aveva affermato che: “Il Myanmar è un membro della famiglia dell’ASEAN e un vicino della Cina. Speriamo tutti che le diverse forze in Myanmar possano avviare un dialogo al più presto … per risolvere le divergenze nell’ambito della legge e della costituzione e promuovere la democratizzazione conquistata a fatica“.  Un messaggio chiaro che puntualizzava come gli eventuali negoziati dovessero svolgersi nel quadro della Costituzione del 2008 imposta dai militari, con l’obiettivo di garantire così, ancora per il futuro la supremazia militare rispetto ad un futuro governo civile. E subito prima di Pasqua, Pechino nel corso di un incontro tra i ministri degli esteri di Malesia, Singapore, Filippine aveva incoraggiato i paesi ASEAN a incontrarsi per trovare una soluzione. Questo mentre stava iniziando ad ammassare truppe nell’area di Jiegao, al confine con la città di Muse nello Stato Shan, con l’obiettivo di difendere, se ce ne fosse stato bisogno, il lunghissimo gasdotto e oleodotto che da Kyaukphyu, sul Mar delle Andamane arriva fino allo Yunnan. Una paura giustificata dal fatto che con il passare delle settimane, il sentimento anticinese è cresciuto in modo esponenziale tra la popolazione birmana. Così, a fronte del silenzio di Pechino, che non ha mai speso una parola per condannare il colpo di stato e le uccisioni perpetrate dai militari, i manifestanti birmani hanno minacciato di attaccare non solo le imprese cinesi, cosa che è successa a metà marzo con l’incendio di 37 imprese nella zona industriale di Hlaing Thar Yar, ma  di prendere di mira anche il gasdotto  e l ‘oleodotto.  In questo clima di crescenti critiche, sempre di più Pechino comincia a vedere messi a rischio gli enormi interessi economici e geopolitici, che si sono concretizzati, prima del colpo di stato, in una serie di accordi economici. Innanzitutto la Belt and Road Initiative e il China Myanmar Economic Corridor.  E poiché, nonostante l’aumento dei morti e degli arresti, le proteste non accennano a diminuire ha dovuto capitolare e mettere in discussione la teoria del non intervento negli affari di altri paesi.

Oggi è stata diffusa la notizia che uno dei consiglieri dell’ambasciata cinese a Yangon ha contattato la settimana scorsa un parlamentare eletto il novembre scorso,e parte del CRPH, il Comitato che rappresenta il Parlamento democratico. Dai media si sa che il consigliere ha ribadito le preoccupazioni dell’ambasciatore circa la situazione, esprimendo preoccupazione per l’aumento delle violenze e per la sicurezza dei cittadini e degli investimenti cinesi nel paese. Investimenti concordati in precedenza con l’NLD. L’ambasciata ha anche dichiarato di voler aprire un canale di comunicazione con il CRPH.  Ma certo tutto è ancora molto in alto mare, e in questa magmatica situazione il CRPH ha stracciato la Costituzione del 2008 e approvato una Carta per la democrazia federale che definisce gli obiettivi principali di lavoro  per al costruzione di una Unione Democratica e Federale e lo sviluppo di una costituzione in tal senso, da elaborare con la partecipazione non solo del parlamento democraticamente eletto, dei partiti politici, del movimento di disobbedienza civile,  delle forze sociali e, cosa fondamentale, delle organizzazioni etniche armate. In tanto il numero degli sfollati interni nello Stato Karen e a Bago sale, così come quelli fuggiti in Tailandia dopo i recenti attacchi aerei che hanno colpito i villaggi Karen. Un rapporto Onu di due giorni fa riporta che sono ormai oltre 7.100 i profughi fuggiti dallo Stato Karen e dalla Regione di Bago dopo gli scontri tra esercito e armate etniche. Mentre oltre 3.848 sono fuggiti in Tailandia (di cui,almeno 1.167 sono rimasti in Tailandia). Mentre i Rohingya rifugiati in India rischiano di essere rimpatriati, cadendo così dalla padella, nella brace.

Difficile tornare indietro a questo punto e impossibile accettare una mediazione al ribasso.

Cecilia Brighi, Segretaria Generale ITALIA-BIRMANIA.INSIEME


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