Giornata internazionale per il diritto alla verità. Una data che rivendica la dignità contro ogni violazione

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Il 24 marzo si celebra la Giornata internazionale per il diritto alla verità e contro le gravi violazioni dei Diritti Umani, ricorrenza nata per ridare dignità, tramite la verità, a tutte le persone i cui diritti sono stati violati.

La verità è un diritto fondamentale, irrinunciabile, e nel mondo molte persone che vivono sotto regimi dittatoriali e liberticidi la difendono anche a costo della loro stessa vita. Migliaia di donne e uomini ogni giorno vengono arrestati, torturati e uccisi per aver fatto luce su fatti che si volevano censurare, per aver documentato conflitti, guerre, abusi, e aver denunciato operazioni criminali e illegali. Chi vuole fare luce sugli eventi, illuminare le periferie, non consegnare all’oblio gli ultimi e i dimenticati, denunciare criminali e corrotti, sa di intraprendere una strada in salita, lungo la quale incontrerà ostacoli di ogni tipo. La Verità è un diritto, ma è anche un dovere. Nei Paesi democratici, dove la libertà è tutelata da normative specifiche, che si aggiornano continuamente, le minacce alla libertà individuale, alla libertà di pensiero e di stampa, così come i bavagli, le censure e le iniziative intimidatorie sono perseguibili per legge. Non è così, purtroppo, nei Paesi che spesso si spacciano per democratici, ma non lo sono, né nei Paesi che fanno dell’oppressione e della censura una vera e propria arma. Il diritto alla libertà implica il dovere di lottare e difendere questa libertà.

Molti Paesi arabi sono purtroppo tutt’altro che liberi e sotto le tenaglie di regimi oscurantisti, liberticidi e dittatoriali sono ancora molte le persone che perdono la vita. È il noto caso del giornalista saudita Jamal Kashoggy, brutalmente assassinato all’interno della sede consolare del suo Paese a Istanbul. Essere oppositori viene equiparato all’essere criminali, sovversivi, disturbatori della quiete pubblica e offensivi dell’onore nazionale, in certi casi si viene etichettati persino come terroristi. Così si demonizzano i dissidenti per giustificarne l’arresto, la tortura e persino l’omicidio.

Il caso di Mustafa Khalifa, intellettuale siriano dissidente, arrestato proprio per le sue idee e finito nel famigerato carcere di Tadmor, Palmira, dove ha subito per quasi vent’anni abusi e torture è emblematico dell’abuso di potere e della mancanza di diritti umani in Siria. Khalifa, cristiano non praticante, venne condannato senza processo con l’accusa di appartenere al movimento dei Fratelli Musulmani. Ciò accadeva sotto il regime di Hafiz al Assad. Un’accusa assurda, che nasconde altro. Secondo la Legge 49 infatti, ancora in vigore, chiunque venga accusato di questa affiliazione viene condannato a morte. Lo racconta attraverso un’esperienza familiare anche un altro scrittore, Faraj Bayrakdar, nel libro “Specchi dell’assenza”. Sul tema c’è ormai molta letteratura. Nulla è cambiato nell’epoca di Bashar al Assad. Per delegittimare gli oppositori, anche quelli disarmati, questi vengono descritti come terroristi, jihadisti, appartenenti a gruppi estremisti, e contro di loro si muovono le accuse più assurde. Un modo per diffamarli e tentare di metterli a tacere. Essere tacciati di appartenere alla Fratellanza equivale a subire una condanna a morte, ciò nonostante, in quasi mezzo secolo, questa situazione in Siria non è cambiata. C’è chi, dentro e fuori dai Paesi arabi, rivendica l’adesione a questo movimento, ma c’è anche chi, ieri come oggi, subisce l’accusa di appartenenza, come accaduto al cristiano Khalifa e ad altre persone che non hanno alcun legame con movimenti politico-religiosi, ma si oppongono ai regimi con uno spirito e una formazione radicati in un pensiero libero, aperto, di formazione occidentale. L’obiettivo, da parte dei loro accusatori diffamatori è quello di intimidirli, delegittimarli e diffamarli. Eppure in lingue araba la parola verità, haqiqa, ha la stessa matrice della parola diritto, haq. La verità e il diritto sono quindi strettamente connessi. Peccato che la realtà sia ben lontana da questo principio tanto alto e nobile.

La verità è sempre sofferta. Questa doveva essere anche l’idea dell’artista Gian Lorenzo Bernini, che esprime tutto il dolore, l’impegno, il sacrificio e la tensione in una sua scultura, intitolata appunto “La Libertà”, esposta oggi al Museo di Villa Borghese. La contorsione del corpo, lo sguardo rivolto verso l’alto esprimono una ricerca sofferta, che è la ricerca che chiunque sia impegnato nella professione giornalistica e nella difesa dei diritti umani vive ogni giorno.


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